domenica 13 settembre 2009

27. La prima guerra mondiale

In questo clima di tensione nazionalistica e imperialistica, ogni Stato fa in modo di mettersi nella posizione più favorevole possibile, al fine di perseguire il maggior vantaggio per sé a scapito di altri, mentre le popolazioni sottomesse intendono approfittare per formare uno Stato indipendente. Ciascuna parte in causa cerca allora, da un lato di evitare l’isolamento, dall’altro di stringere alleanze strategiche. Temendo di essere tagliate fuori dai giochi che contano, le nazioni cercano di evitare l’isolamento e stabiliscono accordi fra loro in modo da poter perseguire indisturbati i propri affari o cautelarsi in caso di eventuali attacchi da parte di Stati concorrenti. I delicati equilibri che si costituiscono non si rivelano stabili e richiedono l’impegno continuo delle diplomazie. Nessuno è disposto a cedere e tutti vorrebbero qualcosa in più. Alla fine, quasi tutte le potenze europee sono favorevoli alla guerra, dalla quale ciascuna pensa di trarre un vantaggio.
Ma, esattamente, questo vantaggio a favore di chi dovrebbe andare? Non certo a favore delle masse contadine e operaie, che costituiscono l’80% delle popolazioni, per le quali un’eventuale vittoria non aprirebbe migliori prospettive di vita, piuttosto comporterebbe il maggior sacrificio in termine di vite umane. Infatti, di norma, il ruolo della plebe in una guerra è quello di “carne da cannone”, mentre, anche dopo un trionfo militare, le condizioni esistenziali della povera gente non mutano. Il vantaggio eventuale riguarda, invece, le medie e le grandi industrie, le grosse imprese commerciali e i gruppi dell’alta finanza, che, grazie ad una politica imperialistica, possono sfruttare le materie prime dei paesi soggetti e creare nuovi mercati per i loro investimenti ed i loro prodotti. In fondo, la guerra può interessare solo a questa minoranza, ed è solo perché è impossibile fare una guerra senza popolo che gli Stati avviano campagne propagandistiche tese a sensibilizzare il popolo alla lotta, a caricarlo emotivamente, ad aizzarlo contro il nemico e, in ultima analisi, ad aumentare le probabilità di vittoria.
A ben guardare, le fiamme della guerra, che divampano in tutto il mondo, sono accese dai singoli Stati, sotto la spinta di un duplice ordine di moventi: da un lato la volontà di liberarsi dalla dominazione straniera e conseguire l’indipendenza nazionale, dall’altro il desiderio di estendere il proprio dominio sul mondo. In entrambi i casi, le decisioni non partono dal basso, non sono il frutto di una scelta popolare. Se si escludono le manifestazioni popolari in alcune città d’Italia, per il resto sono “i calcoli degli uomini di stato a determinare le decisioni” (RENOUVIN 1974: 47). In ultima istanza, sono i centri di potere economico che, attraverso il finanziamento dei partiti e dei mezzi d’informazione di massa, decidono la politica imperialistica degli Stati. Si spiega così il fatto, solo apparentemente sorprendente, che molti paesi scendono in guerra anche se la maggioranza della popolazione è sostanzialmente contraria.
Gli Stati si comportano come se fossero persone, che, consapevoli di trovarsi in un contesto altamente competitivo, cercano di porsi nelle condizioni migliori per imporsi e non essere sopraffatte. Le nazioni maggiormente motivate a combattere sono Germania e Francia (la prima punta all’egemonia in Europa, la seconda aspira ad una rivincita, dopo la cocente sconfitta del 1870) e sono esse che conducono i giochi. Nel 1882 Germania, Austria-Ungheria e Italia stringono la “Triplice alleanza” in funzione antifrancese: in caso di attacco non provocato della Francia a danno di uno di essi, le altre parti interverranno a sostegno dell’alleato aggredito. Nel 1892 la Francia risponde stipulando una convenzione militare con la Russia in funzione difensiva nei confronti di un eventuale attacco da parte della Triplice. E l’Italia? Da un lato, teme l’invadenza della Francia nella propria politica, dall’altro mira ad annettere i territori che sono ancora in mano austriaca. Nel tentativo di salvare capra e cavoli, essa stringe, allora, un accordo segreto con la Francia, impegnandosi a rimanere neutrale in caso di conflitto franco-tedesco (1902). Intanto la Gran Bretagna decide di mettersi al fianco di Francia e Russia e, tutte insieme, creano la Triplice Intesa (1907), che spacca l’Europa in due aree di influenza.
Di fronte alla crescente tensione fra gli opposti imperialismi e nazionalismi, da più parti si avverte l’esigenza di uno strumento giuridico internazionale, capace di dirimere le controversie fra Stati e allontanare lo spettro della guerra. A tale scopo, oltre quaranta governi concordano nel creare meccanismi e organi come l’arbitrato obbligatorio, la commissione internazionale d’inchiesta e la Corte permanente di giustizia (prima e seconda Conferenza dell’Aja: 1899, 1907), i quali, tuttavia, risulteranno di scarsa efficacia per il motivo che il principio dell’assoluta sovranità di ciascuno Stato rende impossibile la predisposizione di sanzioni contro gli eventuali trasgressori.
Lo scoppio delle guerre balcaniche (1912) induce molti Stati europei ad imboccare la via del riarmo e a sensibilizzare l’opinione pubblica circa il rischio di una guerra. In tutti i paesi si determinano delle correnti di pensiero, alcune favorevole, altre contrarie, altre ancora incerte o indecise, e ciascuna ha le sue buone ragioni. In Russia, sono orientati per la guerra coloro che vedono in essa un’occasione per il paese di espandersi a spese dell’Impero ottomano e acquistare prestigio internazionale. In Francia prevale l’atteggiamento di coloro che, pur contrari alla guerra con la Germania, vedono in essa una fatalità quasi ineluttabile, cui è impossibile sottrarsi. I tedeschi inclinano dalla parte dell’imperatore e ritengono necessaria la guerra contro la Russia e la Francia. La Gran Bretagna desidera certamente la pace, anche se non esiterebbe a scendere in campo qualora la Francia dovesse essere attaccata. L’Italia non ha motivi diretti per entrare in guerra e preferisce seguire lo svolgersi degli eventi, pronta a cogliere l’occasione favorevole.
L’evento che innesca la guerra è rappresentato dall’assassinio dell’erede al trono d’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, da parte un giovane nazionalista serbo. Per l’Austria, che da tempo si sente minacciata dai nazionalismi, è un’occasione da non perdere e, nel tentativo di liberarsi definitivamente del pericolo nazionalista, dichiara guerra alla Serbia (28.7.14). La Russia non può lasciare i Balcani in balia dell’Austria e scende in campo in favore della Serbia. Schierandosi a fianco dell’Austria e contro la Russia, la Germania coglie l’occasione per dichiarare guerra anche alla Francia (1.8.14). Avanzando contro la Francia, i tedeschi invadono il Belgio, senza tener conto della sua neutralità, e ciò induce la Gran Bretagna a entrare in guerra (5.8.14). La Turchia nulla ha da temere da un’eventuale vittoria della Germania, mentre vuole impedire un eventuale successo della Russia, perciò decide di entrare in guerra a fianco dei tedeschi (2.11.14). Da parte sua, il Giappone trova vantaggiosa una guerra che, allentando la presenza europea in Oriente, gli offre l’opportunità di condurre a buon fine le sue mire espansionistiche in quell’area e, dal momento che il principale competitore è la Germania, esso si schiera coi paesi dell’Intesa (agosto 1914). Già agli inizi del 1915, Francia e Gran Bretagna, in previsione di una loro vittoria, si accordano segretamente su come spartire l’impero ottomano fra gli Stati dell’Intesa (accordi di Sykes-Picot). L’immagine che viene in mente è quella del cacciatore e della preda: non c’è alcuna logica di giustizia, nessun’etica, ma solo calcolo.
Successivamente, ciascuno con proprie ragioni, altri paesi scendono in campo: la Bulgaria (settembre 1915), l’Italia (maggio 1915), Portogallo (marzo 1916), Romania (agosto 1916), USA (aprile 1917), Cina (aprile 1917), Brasile (aprile 1917) e Grecia (ottobre 1917). A mano a mano che la guerra divampa, in ogni paese non mancano gli intellettuali, come il tedesco Thomas Mann, i francesi Charles Péguy e Guillaume Apollinaire, gli italiani Gabriele D’Annunzio, Giovanni Papini e Ardengo Soffici, che decantano le magiche virtù della guerra e contribuiscono a forgiare una psicologia collettiva bellicista. Ormai la guerra è planetaria. Se qualcuno potesse osservare da un altro pianeta ciò che sta avvenendo sulla terra direbbe che gli uomini sono ammattiti.
Inizialmente l’Italia non prende partito e sta a guardare. Il 3.8.14 essa si dichiara neutrale. L’opinione pubblica è divisa fra interventisti e neutralisti. Ai primi appartengono gli irredentisti e tutti coloro che, pur con varie ragioni, vedono nel conflitto presente l’occasione per avviare l’ultima campagna risorgimentale contro l’Austria per la liberazione di Trento e Trieste, i nazionalisti, che considerano la guerra un bene per l’Italia, un’opportunità da non perdere per entrare nel novero delle grandi nazioni, e Mussolini, che dice sì alla guerra dopo un primo momento in cui si era dichiarato neutrale. Neutralisti sono invece i socialisti, che vedono nella guerra l’espressione degli interessi delle classi borghesi e quei cattolici che fanno propria la posizione di Benedetto XV, secondo cui il diritto deve prevalere sulla forza e la guerra presente è solo un’”inutile strage”. Neutralista è anche l’ex presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, che si è dimesso nel marzo 1914, il quale è convinto che Trento e Trieste possano essere recuperati dall’Italia con semplici trattative diplomatiche. In questo clima i governanti si danno da fare per studiare la situazione e la migliore decisione possibile.
Per circa un mese vengono condotti negoziati sui due fronti, che portano alla seguente conclusione: se l’Italia si mantiene neutrale, otterrebbe dall’Austria-Ungheria, in caso di vittoria, il Trentino e la parte italiana della Venezia Giulia; se, invece, essa si schiera con i paesi dell’Intesa e se contribuirà fattivamente alla loro vittoria, oltre al Trentino e alla Venezia Giulia, otterrebbe l’Alto Adige, la penisola istriana, parte della Dalmazia, le isole adriatiche e parte delle colonie tedesche, in pratica le sarebbe assicurata una posizione preminente nell’Adriatico (Patto di Londra, 26.4.15 ).
Che fare? Andando contro la volontà della maggioranza degli italiani, il re e il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, che ha preso il posto di Giolitti, si impegnano ad entrare in guerra contro l’Austria-Ungheria nel giro di un mese. Il parlamento protesta e costringe Salandra alle dimissioni. In questo momento, nelle principali città d’Italia, Roma, Milano, Torino e Firenze, gruppi di facinorosi scendono nelle piazze e inneggiano alla guerra, fornendo così al re, Vittorio Emanuele III (1900-1946), il pretesto per respingere le dimissioni di Salandra. Alla fine, ciò che fa pendere il piatto della bilancia a favore dell’entrata in guerra è la volontà del re e del presidente del Consiglio, che sfruttano quelle manifestazioni di piazza inneggianti al conflitto per indurre il parlamento a cedere e a dichiarare la guerra (23.5.15). La gente comune forse non si rende nemmeno conto della gravità della situazione, ma si adegua: in fondo, c’è di mezzo l’orgoglio nazionale, il desiderio di dimostrare al mondo che gli italiani sono un grande popolo.
Nel 1914-16 anche gli Usa stanno a guardare: non possono entrare in guerra, perché l’opinione pubblica è nettamente contraria ad un conflitto, che sembra fisicamente lontano e politicamente irrilevante per gli interessi americani, perciò il governo Usa si limita a seguire con attenzione l’evolversi degli eventi. Esso però già pensa con preoccupazione alle future condizioni di pace: se vincono gli Imperi centrali, quasi certamente la Germania imporrà la sua dittatura militare sul Continente europeo e forse comincerà a pensare al dominio dell’intero pianeta; se vincono i paesi dell’Intesa, sarà la Russia ad avvantaggiarsi con conseguenze, al momento prevedibilmente meno negative e, in ogni caso, da valutare.
Il presidente americano, il democratico Thomas Woodrow Wilson (1913-21), sa che il suo paese non può evitare di scendere in guerra e, tuttavia, sa anche che sta per scadere il suo mandato e ci tiene ad essere rieletto. Egli perciò incentra la sua campagna elettorale sulla neutralità americana, e vince. Adesso che è stato riconfermato (gennaio 1917), può muoversi più liberamente e così, dopo una lunga esitazione, adducendo come motivazione la guerra sottomarina tedesca, anche gli Usa aprono le ostilità con la Germania (aprile 1917). Il loro scopo dichiarato non è quello di cercare vantaggi territoriali per sé, quanto quello di abbattere il militarismo tedesco e promuovere i princìpi della democrazia liberale nel mondo. La posizione americana è ben rappresentata nei Quattordici Punti di Wilson (8.1.1918), che illustrano il punto di vista americano su come realizzare condizioni di una pace stabile nel mondo a guerra finita. Essi prevedono: la restaurazione del Belgio, la restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena, l’indipendenza della Polonia, la risoluzione delle controversie sulla base del principio di nazionalità, la libertà di navigazione, libertà di commercio e abolizione delle barriere doganali, riduzione degli armamenti, creazione di una Società generale delle nazioni, al fine di garantire l’indipendenza politica e territoriale degli Stati. Per quel che riguarda l’Italia, il punto 9 prevede la rettifica delle frontiere italiane “secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”.
Fino a tutto il 1916 domina, tra le forze belligeranti, una situazione di equilibrio e di incertezza, che, tuttavia, a partire dall’anno seguente, comincia a spostarsi a favore dei paesi dell’Intesa, nonostante la defezione della Russia che, con la pace separata di Brest-Litovsk, regala alla Germania la Polonia, la Finlandia, i paesi del Baltico e l’Ucraina. Il 24.10.1918, quando le sorti della guerra appaiono nettamente favorevoli all’Intesa, l’esercito italiano lancia un’offensiva vittoriosa contro la Duplice Monarchia austro-ungarica, che si frammenta in sette Stati, due dei quali nuovi: la Cecoslovacchia e la Polonia. Il 30.10.1918 capitola la Turchia e l’impero ottomano si dissolve. Il 9.11.1918 anche l’imperatore tedesco, Guglielmo II, considerato dall’opinione pubblica il principale responsabile della sconfitta, è costretto ad abdicare e il socialista Scheidelmann proclama la Repubblica.

27.1. Bilancio dei soldati caduti in Europa nella prima guerra mondiale
Germania 1.800.000
Russia 1.700.000
Francia 1.400.000
Impero asburgico 1.200.000
Italia 650.000

Alla fine di una guerra, che ha cancellato due Imperi (il tedesco e l’ottomano) abbattuto due grandi dinastie (l’asburgica e i Romanov) ed è costata ai paesi europei oltre otto milioni di morti, i vincitori si riuniscono a Parigi per stabilire il nuovo assetto politico del mondo e le condizioni della pace (1919-1920). Le prime operazioni concernono il Patto della Società delle Nazioni (28.6.1919), che viene sottoscritto da una quarantina di Stati, i quali si impegnano a regolare pacificamente le loro contese senza ricorrere alla guerra, salvo in caso di legittima difesa. Questo proposito, tuttavia, anche se sarà ribadito alcuni anni dopo (Patto Briand-Kellogg, 27.81928), risulterà disatteso, non solo per la defezione degli Usa, dove continuano a prevalere le correnti isolazionistiche, ma anche per la non contemplazione di un esercito internazionale e di altri validi strumenti coattivi efficaci. Poi cominciano le vere e proprie trattative di pace, che si rivelano piuttosto difficili a causa delle divergenze degli interessi degli Alleati. Il Trattato di Versailles (28.6.19) impone alla Germania condizioni dure, ma non durissime. Essa, infatti, può conservare l’unità nazionale e l’apparato industriale, mentre deve subire il disarmo: l’esercito tedesco viene ridotto a 100.000 uomini e privato di aviazione, carri armati e artiglieria pesante. In più, la Germania dovrà pagare gli ingenti danni di guerra in un arco di tempo di circa 60 anni, mentre un contingente militare d’occupazione rimarrà sul suolo germanico per 15 anni, a garanzia del rispetto del trattato: incautamente si tralascia di fissare sia l’ammontare delle riparazioni, sia la parte spettante a ciascuno degli Stati vincitori. Le colonie tedesche vengono spartite fra la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e il Giappone, attraverso il sistema dei “mandati”. Non si tralascia di umiliare il popolo tedesco addossandogli la responsabilità morale della guerra, e ciò contribuisce a renderlo adombrato e desideroso di un pronto riscatto.
Al termine delle conferenze di pace, appaiono più numerosi quelli che sono insoddisfatti o delusi, le ombre prevalgono sulle luci e molti nodi rimangono irrisolti. La Francia chiede lo smembramento della Germania, ma non riesce a vincere l’opposizione di Gran Bretagna e Usa, che è fondata essenzialmente su questioni commerciali, e non può che manifestare la sua delusione. Anche l’Italia, che pure ha ottenuto il Trentino, l’Alto Adige, Trieste e l’Istria, rimane delusa perché Wilson, coerentemente col principio di nazionalità già enunciato nei “14 Punti”, si è opposto alle sue rivendicazioni sulla Dalmazia e su Fiume. Molti si sentono umiliati e parlano di “vittoria mutilata”. Nel settembre 1919 D’Annunzio riesce ad occupare Fiume, ma il governo italiano, che vuole rispettare le clausole del Trattato, reagisce cacciando le forze d’occupazione e rinuncia definitivamente alla Dalmazia (Trattato di Rapallo, 12.11.1920). In compenso, l’Italia otterrà dalla Turchia il riconoscimento dei diritti sulle isole del Dodecanneso (Trattato di Losanna, 24.7.1923). In ogni caso, non è la politica di grandezza che voleva. Nella regione dei Balcani, si lascia che alcune popolazioni nazionali vengano unificate in un unico “Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni” (23.11.1918), che diverrà “Iugoslavia” nel 1929. La Iugoslavia comprende anche la Bosnia-Erzegovina e la Macedonia. Il 15% della sua popolazione complessiva è costituita da gruppi non slavi: tedeschi, albanesi, ungheresi, romeni. Si tratta di una quadro politico prevedibilmente instabile, all’interno della quale la Serbia continua a coltivare mire egemoniche. I trattati di pace lasciano irrisolte le questioni riguardanti l’area sovietica, compresi i paesi baltici e la Polonia.

26. Il quadro politico mondiale a cavallo fra XIX e XX secolo

Alla vigilia della prima guerra mondiale, la situazione internazionale è pesantemente influenzata dagli interessi dei principali paesi imperialisti, che sono Gran Bretagna, Francia, Germania e Giappone, con l’outsider degli Stati Uniti, che fino ad oggi hanno adottato una politica isolazionista, ma che, al momento, costituiscono la prima potenza industriale del mondo e il cui eventuale intervento potrebbe incidere in modo determinante sugli equilibri internazionali.
La Gran Bretagna mira sostanzialmente al controllo dei mari, allo sfruttamento coloniale e a condizioni di libero mercato. Essa può contare sulla più grande e potente flotta navale al mondo, ma deve guardarsi dalla prepotente ascesa dell’Impero tedesco, che ne insidia il predominio sull’Europa e sui mari.
Il Giappone ha imboccato la via della modernità e sviluppato un forte sentimento dell’onore nazionale. Essa aspira a cacciare gli europei dall’Oriente e ad ottenere l’egemonia commerciale nell’area del Pacifico e a diventare “l’Inghilterra dell’Asia”.
La Francia non ha ancora digerito la sconfitta di Sedan (1870) e coltiva sogni di rivincita (revanche) nei confronti della Germania, in particolare vorrebbe recuperare i territori perduti dell’Alsazia e della Lorena, ma non dispone dei mezzi necessari per realizzare questa politica di potenza.
Consapevole di rappresentare la prima potenza militare in Europa e nel mondo e animata da sentimenti ipernazionalisti, la Germania persegue una politica imperialista e mira al dominio del mondo (pangermanesimo). Con questi intenti, Guglielmo II allestisce una potente marina da guerra e si lancia “verso la più sfrenata competizione economica e in un contesto internazionale dove ogni nazione tende alla maggiore affermazione egoistica della propria forza” (RENOUVIN 1974: 435).
L’Austria-Ungheria non dispone dei mezzi per condurre una politica d’espansione, ma nemmeno ne avverte l’esigenza, essendo le sue preoccupazioni assorbite dai movimenti nazionalistici che si agitano al suo interno e che rischiano di farla implodere. Essa non può ignorare che quasi il 50% dell’intera popolazione è di nazionalità slava.
Nonostante le sue dimensioni territoriali e demografiche, che la collocano al primo posto in Europa, e un’indubbia crescita industriale, la Russia è ancora in netto ritardo rispetto alle altre grandi nazioni europee, non solo sotto il profilo economico, ma anche su quello militare e degli armamenti. Le sue mire sono rivolte all’Oriente, ai Balcani ed al Mediterraneo, dove si trova a competere principalmente col Giappone, l’Austria-Ungheria e la Turchia, ma deve guardarsi dalle mire egemoniche della Germania.
Gli interessi dell’Impero ottomano sono orientati almeno alla propria sopravvivenza e, possibilmente, al recupero delle posizioni perdute, anche se il principio di realtà non induce a farsi soverchie illusioni: essendo una parte debole, il suo futuro è legato ad una politica di alleanze.
Piuttosto complessa è la situazione nei Paesi balcanici, dove la Serbia persegue una politica egemonica e tende a realizzare l’unione nazionale della Jugoslavia, svolgendo la stessa funzione che ha assunto per l’Italia il Piemonte, ma il suo disegno va contro gli interessi dell’Austria e della Turchia. Dal tentativo da parte di Bulgaria, Grecia e Serbia di liberarsi definitivamente dal giogo ottomano prendono origine le “guerre balcaniche” (1912-3), a seguito delle quali l’impero Ottomano perde tutti i suoi possedimenti in Europa. Ciò non basta a creare condizioni di pace nella regione balcanica, perché i regni appena costituiti continuano a coltivare ambizioni territoriali.
Anche la Cina attraversa un periodo di debolezza ed è considerata l’”uomo malato” dell’Asia orientale. Le sue membra sono contese dalle grandi potenze europee: Germania, Francia, Gran Bretagna e Russia, oltre che dal Giappone. Intanto, in seguito ad una rivolta divampata ad Hankou, nella Cina centrale, nell’ottobre del 1911, e poi diffusasi in tutte le province dell’impero, il capo di stato maggiore imperiale, generale Yuan Shikai, tratta con i ribelli, e il 14 febbraio 1912 un’assemblea rivoluzionaria, riunita a Nanchino, lo acclama primo presidente della neocostituita Repubblica cinese. Lo stesso anno Pu Yi, l’ultimo imperatore cinese, abdica all’età di sei anni, e inizia per la Cina una nuova era.
L’Europa, invece, rappresenta la maggiore potenza mondiale ed è in grado di condizionare le economie e le politiche di tutti i paesi del globo. Dal punto di vista politico, vi si possono distinguere due principali forme di governo: una forma autocratico-assolutistica, che è incarnata da Austria, Germania e Russia, e una forma liberal-democratica, che è rappresentata da Francia e Gran Bretagna. Dal punto di vista sociale, seppure in diversa misura, in tutti i paesi europei, nel periodo 1848-1914, si assiste alla prepotente ascesa del proletariato, che entra in lotta contro la borghesia per il primato nella società.

25. Gli italiani dal 1871 al 1919

Nel 1871 il Regno d’Italia è quasi ultimato. Dal punto di vista formale, si tratta di una monarchia parlamentare di stampo liberale, centrata sugli interessi del re e della classe borghese piemontese. Di norma il re si limita ad una supervisione sulla politica estera e militare, mentre il resto del potere politico è esercitato da una Camera di deputati eletti dal popolo e da una Camera di senatori, che sono nominati a vita dal re su raccomandazione del Presidente del consiglio e che, di norma, sono di orientamento conservatore. Tutti i ruoli sociali strategici sono sotto il controllo del governo, che nomina sindaci e segretari comunali, oltre ai prefetti, che hanno il compito di assicurare la rispondenza delle amministrazioni locali ai desideri del governo centrale.
Rimane ancora l’impostazione maschilista della società, che vede la donna sottomessa al marito e con minori diritti sociali e politici e, per questo, il diritto al voto è riconosciuto solo ai cittadini di sesso maschile che hanno compiuto 25 anni di età e che pagano un’imposta di almeno 40 lire all’anno: in pratica, solo il 2% della popolazione. Nel 1870 gli aventi diritto al voto ammontano a circa 500 mila e salgono a 622 mila dieci anni dopo, ma l’astensionismo supera il 40%, anche a causa del non expedit, e gli effettivi elettori costituiscono, dunque, un’esigua minoranza. Ciò spiega l’enorme importanza di ogni singolo voto e la sollecitudine dimostrata dai candidati nei confronti dei loro elettori. È anche per evitare questo inconveniente che si cerca di estendere il suffragio. Invano Leone XIII tenta di evitare questa svolta affermando che la fonte del potere va ricercata in Dio e non nel popolo (Diuturnum, 1881). Nel 1882, l’abbassamento dell’età del voto a 21 anni e della contribuzione fiscale minima a circa 20 lire eleva il numero degli elettori a due milioni, il 7% della popolazione, che diventano poco meno di tre milioni nel 1909, ossia il 10%.
L’estensione del suffragio, tuttavia, non cambia sostanzialmente lo stato delle cose. Il potere, infatti, rimane centralizzato e saldamente nelle mani di una ristretta élite e di un governo che si serve delle forze armate e dei tribunali, ma anche dell’apparato finanziario, come semplici strumenti per assicurarsi l’obbedienza del popolo oltre che per lucrare facili e sostanziosi guadagni. Il più delle volte queste operazioni finanziarie truffaldine passano inosservate, ma talvolta le cose non vanno per il verso sperato e scoppia lo scandalo, come avviene nel 1893 per la Banca di Roma, implicata, con la complicità della classe politica e dello stesso Crispi, in un giro d’affari legato all’acquisto di terreni agricoli, che poi venivano dichiarati edificabili e rivenduti ad un prezzo molto più alto.
Oltre che per questi limiti di democraticità, i primi governi si caratterizzano per una politica ostile alla chiesa e per una scarsa partecipazione politica dei cattolici. Inizialmente, dalla parte del popolo si levano solo le deboli voci degli anarchici, poi entreranno in scena il Partito socialista e i sindacati.
Il processo di industrializzazione è ancora scarso, ma già sufficiente a favorire l’urbanesimo e il passaggio dalla tradizionale famiglia allargata a quella nucleare. Nel 1872 nasce l’industria della gomma (Pirelli), nel 1884 quella siderurgica (Terni) ed elettrica (Edison), nel 1886 quella meccanica (Breda), nel 1888 quella mineraria e chimica (Montecatini), nel 1899 la Fiat, nei confronti delle quali lo Stato adotta misure protezionistiche. L’offerta di lavoro nel settore industriale lusinga le masse contadine, che abbandonano le campagne e si trasferiscono nelle città, mentre lo Stato punta sull’espansione coloniale, sia per poter piazzare a condizioni favorevoli i propri prodotti, sia per una questione di prestigio internazionale, che è tutto da costruire dal momento che, alla fine del XIX secolo, l’Italia occupa, fra le grandi potenze, un ruolo marginale, non possedendo mezzi militari e navali atti a renderla competitiva. Tuttavia, il suo peso demografico (35 milioni nel 1913), insieme allo sviluppo industriale e alle tendenze nazionalistiche, sono tali da indurla a coltivare sogni di grandezza. I suoi interessi sono rivolti ai Balcani e all’Africa, dove essa vorrebbe estendere la sua zona d’influenza e dove si trova a competere principalmente con Austria e impero Ottomano. Nel 1890 Crispi guadagna all’Italia l’Eritrea e già si lancia alla conquista dell’Abissinia, ma la sconfitta di Adua (1896) fa cadere il suo governo. L’Italia comunque insiste nella sua azione e, nel 1905, annette anche la Somalia, entrando, a pieno titolo, nel novero delle potenze coloniali.
Se cresce l’industria, sostenuta dalla politica governativa, critica rimane la situazione dei contadini e degli operai, e ciò conferisce alla società un aspetto duale, potendovisi nettamente distinguere una classe imprenditoriale e borghese in forte crescita e una massa popolare costretta a vivere ai limiti della sussistenza e incapace di far valere i propri diritti, anche per la mancanza di una chiara coscienza del proprio stato e di un’efficace organizzazione unitaria. A più riprese falliscono i tentativi insurrezionali promossi dall’anarchismo bakuniano (1874-7), mentre avanza a grandi passi il socialismo, che dà vita ad un “Partito operaio” (1882), dal quale prenderà origine il “Partito socialista italiano” (1895), il cui programma comprende il suffragio universale, l’abolizione della censura, l’emancipazione delle donne, la tassazione progressiva sul reddito e la giornata lavorativa di otto ore. Del disagio dei contadini e dei salariati dell’industria si preoccupa poco il governo, che è tutto preso dai suoi sogni di grandezza e preferisce sostenere le classi abbienti. A Milano, nel maggio 1898, esso non esita a mobilitare l’esercito contro una folla di manifestanti che chiedono pane e lavoro, lasciando sul campo centinaia di morti.
La prima organizzazione sindacale, la Cgl, vede la luce nel 1906, ed è solo da questo momento che comincia ad essere attuata una politica riformista, che fa registrare le prime conquiste da parte dei lavoratori e l’introduzione del suffragio universale maschile (1912), che porta l’elettorato a otto milioni e mezzo (23%) e rappresenta un’importante conquista democratica. Intanto i cattolici non ci stanno a fare da semplici spettatori e danno vita a qualche iniziativa politica, come quella del sacerdote Romolo Murri che, appoggiandosi ai sindacati, fonda la Lega democratica nazionale (1906), ma queste iniziative incontrano l’opposizione della chiesa e non hanno futuro.
Da parte sua, lo Stato abbandona l’anti-clericalismo e si avvicina alla chiesa, ricevendo in cambio dal Vaticano l’allentamento del non expedit e, soprattutto, l’appoggio per la guerra di conquista della Libia (1911). Invano le forze politiche di sinistra si adoperano nel tentativo di mobilitare la pubblica opinione contro quella che loro definiscono un “atto di brigantaggio determinato solo da loschi interessi capitalistici della classe dominante” e da conseguire col sacrificio della povera gente. Hanno la meglio i nazionalisti, che inneggiano alla guerra, nella quale vedono l’unico mezzo in grado di fare grande il popolo italiano.
Ora che la chiesa si è riconciliata con lo Stato, può finalmente nascere la prima importante organizzazione politica delle forze cattoliche, che è guidata da Luigi Sturzo e prende il nome di Partito popolare italiano, Ppi (1919). Le elezioni del 1919 sono dominate dai due parti di massa: il PSI con il 32,4%, il PPI con 20.5%.

25.1. La politica vaticana
Mentre così cambiano i tempi, la politica vaticana rimane ferma sulle sue posizioni, che sono in antitesi tanto con l’unità d’Italia quanto con l’incipiente modernità (CANDELORO 1953). Di fronte alla proclamazione dei diritti democratici dei cittadini e al profilarsi di nuovi regimi politici improntati dai valori democratici, i papi non si ispirano al modello della città sul monte (Mt 5,13-16), non avanzano proposte innovative, non si mettono alla testa di un movimento progressista, ma preferiscono volgersi indietro e, mentre condannano il presente, auspicano il ritorno del passato. Si pensi all’ancien régime.
Ancien régime o vecchio ordine, così era stato chiamato dai rivoluzionari francesi il sistema sociale che essi intendevano mettersi alle spalle e che era “innanzitutto e soprattutto un’economia contadina ed una società rurale dominate da nobiltà ereditarie e privilegiate” (MAYER 1999: 4). L’ancien régime era fondamentalmente una società di tipo feudale, gerarchica, autoritaria, che aveva assunto pressoché ovunque una veste assolutistica, trovando nella Chiesa un potente sostenitore (MAYER 1999: 226, 229). Così, quando ormai l’ancien régime appare ormai definitivamente e irrimediabilmente agonizzante, papa Pio X dà alle stampe due encicliche (Lamentabili e Pascendi) con cui condanna il modernismo (1907) e, a partire dal 1910, viene richiesto ai chierici un giuramento antimodernista. Perfino in Francia, dove era stato dichiarato legalmente defunto, questo sistema in realtà sopravvisse fino alla seconda guerra mondiale (MAYER 1999: 4, 305-6).
Leone XIII (1878-1903) conserva la speranza di ripristinare il potere temporale della chiesa e si allinea subito alla politica del predecessore, ribadendo il “non expedit” e confermando, nell’enciclica Imperscrutabili (1878), l’atteggiamento di totale chiusura nei confronti dell’Italia. In linea con il Sillabo, condanna anche il socialismo, il comunismo e il nichilismo, come ultime espressioni degli errori moderni (Quod apostolici numeris, 1878). Medita di trasferirsi in Austria, ma la stipula di alleanza Italia-Austria (la Triplice, 1882), gli impedisce di portare a termine questo progetto. Il pensiero di Leone XIII presenta anche alcune, seppur timide, aperture al nuovo spirito democratico, che si manifestano già con la Diuturnum (1881), dove viene incoraggiata una certa libertà nell’esegesi biblica, poi con la Libertas (1888), dove si riconosce il principio della libertà di coscienza negato dai predecessori e, infine con la celeberrima Rerum novarum (1891), dove, senza nulla aggiungere ai princìpi già da tempo radicati nel mondo cattolico, viene difeso il diritto alla proprietà privata, anche se lo si inserisce in un contesto di solidarietà cristiana e di rispetto della persona, e criticato il diritto di sciopero e il socialismo. Nello stesso tempo, s’invita ad una maggiore giustizia sociale, ad evitare la guerra di classe, ad aiutare i meno abbienti e a stabilire un rapporto di collaborazione fra padroni e operai. Il capitalismo non viene neppure nominato. Sono queste le basi programmatiche della democrazia cattolica (1900), ma non basta ad approvare l’ingresso nell’agone politico del sacerdote Romolo Murri (1901). Anche se a Leone XIII viene riconosciuto il merito di aver introdotto un nuovo modo di annunciare la verità cristiana, che ora è basato più sul dialogo, anziché sulla condanna, come avveniva in passato, egli rimane in fondo un anti-democratico (condanna dell’americanismo, 1901).
La parziale apertura democratica di Leone XIII è vanificata dall’atteggiamento intollerante di Pio X (1903-1914). Uomo profondamente religioso e semplice (significativo è l’abbandono del plurale maiestatis), Pio X è altrettanto profondamente conservatore e contrario a tutto ciò che è moderno. Sotto il suo pontificato Romolo Murri continua a perseguire il suo disegno di guidare i cattolici alla partecipazione politica. Ebbene, questo disegno, benché temporaneamente incoraggiato da una breve sospensione del non expedit in occasione delle elezioni del 1904, viene definitivamente sconfessato e lo stesso Murri è accusato di modernismo e scomunicato (1907). Per Pio X il mondo è, e non può che essere, un sistema duale, ad imitazione della chiesa, che è, per sua stessa natura, una società di ineguali e comprende due categorie di persone, i pastori e il gregge, una società in cui solo la gerarchia muove e controlla ogni cosa, mentre il popolo ha il dovere di ubbidire ed eseguire, in spirito di sottomissione, gli ordini delle autorità costituite (Vehementer nos, 1906). Totale e senza appello è la condanna di ogni forma di modernità, che il pontefice definisce «compendio di tutte le eresie» (Pascendi, 1907). È cosi accesa l’avversione di questo papa nei confronti di tutto ciò che è nuovo, da indurlo ad imporre ai sacerdoti uno speciale giuramento di rifiuto del modernismo (1910). Alla vigilia della guerra mondiale, Pio X vede nell’Impero austro-ungarico l’ultimo baluardo del cattolicesimo e, nella sostanza, si schiera dalla sua parte, senza esprimere parole di condanna dell’imminente conflitto.
A differenza del predecessore e contro l’opinione diffusa presso la maggior parte dei cattolici, che è favorevole alla guerra, Benedetto XV (1914-1922) osserva una “perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune”. Per questo riceve molte critiche, e perfino insulti, ma lui prosegue per la sua strada, e, mentre condanna la guerra, si prodiga ad aiutare i detenuti politici e i prigionieri italiani e si adopera per una pace giusta, senza spirito nazionalistico, senza prevaricazioni e senza annessioni (Ad beatissimi, 1.11.1914). Quello stesso spirito nazionalistico, che ha condannato in politica, Benedetto XV lo coltiva in campo religioso, dove i non-cristiani vengono definiti pagani, infedeli, gentili, idolatri e, nei confronti dei quali, egli dà impulso alle missioni (Maximum illud, 1919). La promulgazione del Codice di diritto canonico (1917) contribuisce a migliorare la struttura organizzativa della chiesa, all’interno della quale si consolida l’autorità del pontefice. Sul fronte della politica italiana, Benedetto XV abroga definitivamente il non expedit e dà il via alla partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica del paese.

24. Gli indiani

Gli inglesi portano pace e ordine nel paese e gli indiani, da parte loro, non oppongono resistenza a farsi occidentalizzare. Vengono costruite le prime ferrovie (1853), creati la posta e il telegrafo (1853-4), consentito alle vedove di risposarsi (1856), fondate università. La Compagnia delle Indie viene soppressa (1858) e il paese passa direttamente alla corona. Nel loro processo di espansione, gli inglesi raggiungono l’Afghanistan e finiscono per entrare in rotta di collisione con la Russia, che in quell’area ha propri interessi da difendere e proprie mire. Intanto, in India si accendono focolai nazionalistici che puntano sull’indipendenza del paese. Durante il primo conflitto mondiale, l’India appoggia l’Inghilterra aspettandosi in cambio il riconoscimento d’indipendenza, ma le sue speranze rimangono deluse. Il paese è inoltre teatro di lotte intestine fra indù e musulmani.

23. I cinesi

Per costringere il governo di Pechino ad accettare l’importazione dell’oppio, l’Inghilterra scende in guerra con la Cina e si impadronisce di Hong-Kong (1841). Indeboliti da rivolte interne, i Manciù non riescono ad evitare che gli inglesi assumano il dominio della Cina e ne impongano le proprie strategie commerciali. La Cina è ormai una facile preda e altri predatori (Russia, Giappone, Germania e Francia) si contendono le parti che l’Inghilterra ha lasciato libere.

22. La Palestina e gli ebrei

Nel 1825 gli arabi palestinesi insorgono contro l’eccessiva pressione fiscale e resistono alle forze ottomane, che alla fine sono costretti ad accettare le loro condizioni. Questo episodio rappresenta l’inizio del risveglio nazionalistico da parte degli arabi palestinesi. Dopo una temporanea occupazione egiziana (1831-40), la Palestina ritorna ad essere una sottoprovincia (sangiaccato) dell’impero Ottomano. Intorno al 1850, essa è abitata da circa 500 mila persone di lingua araba e di fede musulmana, 60 mila cristiani, 20 mila ebrei, 50 mila militari ottomani. La popolazione rimane ancora arretrata, conduce una vita agricola e pastorale ed è raggruppata in clan, ciascuno dei quali è rappresentato da uno sceicco, primo fra eguali.
Dopo la guerra di Crimea (1853-6), gli europei, soprattutto i Templari tedeschi, cominciano a mostrare interesse per la Palestina e ottengono il permesso di acquistarvi terre. I nuovi arrivati vedono la popolazione indigena come gente di rango inferiore, da convertire alla propria religione o da eliminare, in modo da trasformare la Terra Santa in una colonia tedesca. Al loro seguito si distinguono gli ebrei che, stremati dalle numerose persecuzioni cui sono stati sottoposti e stanchi di sentirsi tollerati come ospiti nei diversi paesi del pianeta, cominciano ad avvertire il bisogno di costituire un proprio Stato autonomo, dove poter vivere in pace. Da quel momento, si assiste ad una rinascita dell’attività economica della regione e ad un incremento demografico, legato in parte ad un ininterrotto flusso immigratorio di ebrei, principalmente in direzione di Gerusalemme e Jaffa, favorito dalle discriminazioni e dalle violenze di massa (pogrom) , di cui quelli sono fatti oggetto in Russia. Il primo pogrom risale al 1881, dopo l’assassinio dello zar Alessandro II, di cui vengono incolpati gli ebrei. In questo periodo in Palestina vivono 24 mila ebrei.
Nel 1882, gli ebrei insediano, presso Giaffa, la loro prima colonia agricola, che è in pratica un’enclave ebraica in territorio arabo. Nello stesso anno, Leon Pinsker pubblica un libro dal titolo Autoemancipazione, dove indica, come unica soluzione possibile per gli ebrei, la creazione di una terra propria, di un rifugio, che non necessariamente dev’essere la Palestina (POTOK 2003: 497-8). Preoccupato, il governo ottomano vara una legge contro l’immigrazione degli ebrei (1882), che però continua clandestinamente, sostenuta, fino al 1889, dall’aiuto economico di un ricco banchiere ebreo, il barone Edmond de Rothschild, e, successivamente, grazie ai fondi raccolti da un’organizzazione creata ad hoc. Lo scopo è quello di creare uno Stato ebraico in Palestina. Tale progetto, chiamato “sionismo”, viene portato avanti da un giornalista ebreo, Theodor Herzl, ed è sostanzialmente un movimento espansionista, che ha, come obiettivo ultimo, quello di “trasformare un paese abitato da arabi nella loro patria” (MORRIS 2001: 68) e la fondazione di “uno stato ebraico indipendente con il consenso delle grandi potenze mondiali” (POTOK 2003: 504).
Nel 1891 un cospicuo numero di notabili arabi invia una petizione ad Istanbul chiedendo che si ponga un freno sia alle immigrazioni degli ebrei sia alla vendita di terreni ai sionisti, ma senza successo: nel 1896, in un periodo in cui è di moda il colonialismo e il nazionalismo, il movimento sionista viene ufficializzato, anche se non c’è accordo sulla sede. L’opzione maggioritaria propende per la Palestina, ma non si escludono altre possibili sedi, come l’Uganda britannica.
Considerando la Palestina una terra di nessuno, i sionisti coniano il seguente slogan, che riassume il loro programma politico: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Herzl vorrebbe comprare la Palestina, ma il sultano ottomano gli oppone un secco rifiuto, forse perché lo considera un ciarlatano, o perché non crede che egli disponga del denaro necessario, o, più semplicemente, perché ritiene inconcepibile quella richiesta. In compenso, nel 1902 l’impero ottomano offre a Herzl la Mesopotamia in cambio di denaro, ma ottiene un rifiuto (POTOK 2003: 506). Nel 1903 la Gran Bretagna offre l’Uganda, ma anche in questo caso i sionisti rifiutano. Il progetto sionista, tuttavia, non si arresta: quello che non si può ottenere con la diplomazia, si può tentare di ottenerlo con i fatti concreti. Dal 1878 al 1908 gli ebrei acquistano terre pari al 15% dell’intera superficie palestinese (MORRIS 2001: 55). È la prima fase della “conquista”, che possiamo chiamare della “espropriazione strisciante”, alla quale fa seguito l’inizio della costruzione della moderna Tel Aviv (1907) e la fondazione del primo kibbutz (1909).
Inizialmente gli arabi rimangono pressoché indifferenti e i funzionari ottomani si lasciano facilmente corrompere e rilasciano regolari certificati di residenza ad ebrei che sono entrati solo per un breve soggiorno come pellegrini o turisti (MORRIS 2001: 59), ma poi (1908), anche i palestinesi arabi iniziano a manifestare apertamente il loro nazionalismo e la loro aspirazione ad avere un proprio Stato. Nel 1909 viene fondata al-Fatat, un movimento di difesa della nazione araba contro le pretese sioniste, che, per il momento, deve operare clandestinamente (MORRIS 2001: 45).
La situazione cambia nel corso della prima guerra mondiale. Nel 1915, allo scopo di indurre gli arabi a ribellarsi alla Turchia, gli inglesi promettono loro uno “Stato sovrano musulmano indipendente” (ARMSTRONG 2000: 351). Due anni dopo, gli inglesi entrano a Gerusalemme e assumono il controllo della Palestina, che in quel momento ospita circa 60 mila ebrei, pari a circa l’8% della popolazione. Spinti da motivi contingenti, legati alla guerra in corso, e volendosi assicurare il sostegno tanto degli arabi quanto degli ebrei contro la Turchia, gli inglesi lasciano intendere ad entrambi le parti che saranno favorevoli alla costituzione di un loro Stato autonomo. Tale è il senso di una dichiarazione del loro ministro agli affari esteri, il filo-sionista lord Balfour, pubblicata nel novembre 1917, che promette un “focolare nazionale ebraico in Israele”, pur nel pieno rispetto delle popolazioni arabe residenti. Pur essendo un semplice gesto di propaganda politica, questa dichiarazione ha l’effetto di intensificare le immigrazioni degli ebrei, che, al momento, ammontano a 50 mila. Leo Mozkin, un intellettuale sionista, comincia a stimare che sei milioni di ebrei potrebbero insediarsi in Palestina senza espellere la popolazione locale, che dovrebbe rassegnarsi a vivere in condizioni minoritarie e subordinate (1918).
Finita la prima guerra mondiale, rimangono sul campo due nazionalismi, quello sionista e quello arabo, che puntano a fare della Palestina il proprio Stato. Nel 1919 la popolazione ebraica in Palestina passa a 58 mila, l’8% della popolazione araba, che ammonta a 640 mila. Ciò crea apprensione presso gli arabi.

21. I sudamericani

Agli inizi del XIX secolo il desiderio di indipendenza induce i sudamericani a costituire dei movimenti indipendentisti che, organizzatisi intorno alle figure di José de San Martín e di Simón Bolívar, riescono a cacciare i colonizzatori spagnoli e a proclamare l’indipendenza dell’America Latina: la battaglia decisiva è quella di Ayacucho, nel 1824. Il progetto di Simón Bolívar di creare una grande nazione latinoamericana fallisce e si costituiscono gli Stati che conosciamo.

20. Gli americani

Nel 1823 il presidente Monroe (1817-25) dichiara di voler mantenere gli Stati Uniti estranei ai giochi di potere internazionali. Per il momento, il principale obiettivo degli Usa è quello di espandersi ad Ovest raggiungere il Pacifico. Hanno già acquisito l’Indiana (1816), il Mississippi (1817), l’Illinois, l’Alabama, parte del Massachussetts (1819) e il Missouri (1821), ma sono fermamente intenzionati a portare a termine la loro opera di espansione e sanno che c’è ancora tanto da fare. La progressione degli Stati annessi o conquistati è impressionante: Arkansas (1836), Michigan (1837), Texas e Florida (1845), Iowa (1846), Wisconsin (1848), California (1850), Minnesota (1858), Oregon (1859), Kansas (1861), Nevada (1864), Nebraska (1867), Colorado (1876), Montana, Washington, Oregon, North e South Dakota (1889), Idaho (1890), Utah (1896), Oklaoma (1907), Nuovo Messico e Arizona (1912).
Intanto si vanno consolidando e approfondendo le differenze culturali fra Nord industriale, che è favorevole all’introduzione delle macchine, e Sud agricolo, che è favorevole allo schiavismo, finché, nel 1861, si giunge allo scoppio della guerra di Secessione, una guerra civile, che oppone gli Stati del Nord (Unione) a quelli del Sud (Confederati). Il conflitto, che è uno dei più sanguinosi della storia (600 mila morti su una popolazione di trenta milioni di abitanti, secondo Zinn), si conclude nel 1865 con la vittoria dei Nordisti, i quali, abolendo la schiavitù, in pratica mandano in rovina il sistema economico del Sud, mentre impongono la loro visione della politica, che è incarnata dal partito repubblicano, che conquista il potere (e lo conserverà quasi ininterrottamente fino al 1913). Cominciano a formarsi i grandi trust imprenditoriali che, favorendo regimi di monopolio, dettano legge in campo economico e sono in grado di influenzare tanto l’opinione pubblica quanto la politica.
Per i salariati la vita è dura e grama, e ancora peggiore lo è per i neri. Nel 1876, nel centenario della Dichiarazione, gli uni e gli altri non nascono la propria delusione per la mancata conquista dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità, che pure è prevista dalla Costituzione, e danno inizio ad un’ondata di scioperi all’indirizzo di alcune compagnie ferroviarie, che sono ritenute colpevoli di aver praticato ingiustificati tagli ai salari. In Virginia e in Pennsylvania devono intervenire le truppe federali e ci scappa qualche morto. Gli scioperanti chiedono la nazionalizzazione delle ferrovie e la loro protesta rischia di estendersi alla gente di colore e a tutti quelli che sognano una società socialista, più attenta alle condizioni delle classi deboli, ma alla fine le ferrovie fanno qualche concessione e l’agitazione si placa. Rimane il bilancio di un centinaio di morti e di un migliaio di persone incarcerate (ZINN 2007: 173-4). Da questo momento e per tutto il secolo, la politica americana rimane di tipo borghese e non cambia. In particolare, gli organi di polizia vengono potenziati, in modo da mettere i salariati e i neri in condizione di non nuocere, e gli scioperi non sono più tollerati.
Dopo la guerra civile, prosegue il genocidio degli “indiani”, che vengono cacciati dai loro territori, sterminati e resi schiavi, e a nulla valgono certe loro isolate affermazioni, come quella contro il generale Custer (1876). Nel 1890 nessuna tribù ha territori indipendenti. Tutto è in mano ai bianchi. Restano solo 250 mila indiani, raggruppati soprattutto nel West. In meno di un secolo, gli americani hanno esteso il loro territorio di oltre il 400%, rivelandosi però incapaci di una crescita demografica altrettanto imponente, col risultato che molte regioni rimangono scarsamente popolate e costituiscono un eccellente punto di sfogo per la sovrappopolata Europa. A ciò bisogna aggiungere lo straordinario sviluppo industriale, che mantiene elevata l’offerta di posti di lavoro. Ed ecco perché, dal 1840 al 1914, diciotto milioni di emigranti europei, poveri in cerca di fortuna, sbarcano in America e si lanciano alla conquista del West: i carri dei bianchi, che si dirigono verso la California, attraversano continuamente i territori degli indiani, protetti dai soldati federali. La popolazione cresce rapidamente: da 76 milioni nel 1900 a 97 milioni nel 1914.
Per quel che attiene la politica internazionale, gli USA non cessano di ricordare che la loro stessa esistenza è originata dalla rottura dei legami coloniali con la madrepatria, e continuano ad avversare il colonialismo militare, che invece è praticato da Europa e Giappone. Se gli USA non perseguono una politica coloniale al di fuori del proprio Continente, in realtà essi non rimangono inerti e, anziché conquistare nuovi territori con le armi, come fanno gli europei, preferiscono procurarsi aree di influenza economica, attraverso quella che viene chiamata diplomazia del dollaro, e perseguono un imperialismo culturale, che si esprime nella volontà di esportare nel mondo il proprio modello politico, di stampo liberale e democratico, che è ritenuto superiore ai governi autocratici. Si comincia a ritenere che è arrivato il momento di guardare all’esterno e di pensare alla guerra. “Tutte le grandi razze dominanti”, ricorda Roosevelt, “sono state razze di guerrieri” (ZINN 2007: 209). Così, agli inizi del XX secolo, sotto la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-09), gli USA coltivano prospettive di un panamericanesimo economico e culturale, che è nettamente antitetico al modello marxista-leninista che, negli stessi anni, si sta sviluppando in Russia.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, mentre è presidente Thomas Wilson (1913-21), gli americani rimangono neutrali fino a quando la Germania non decide di allargare la guerra sottomarina contro chiunque (1.2.1917), il che offre a Wilson lo spunto per avviare una campagna ideologica e orientare l’opinione pubblica a favore dell’entrata in guerra degli Usa, che avviene 6.4.1917. Per gli americani si tratta di una “guerra della libertà e del diritto condotta affinché tutti i popoli, compresi i tedeschi, abbiano il diritto di autogovernarsi”. Wilson esprime questa posizione nei famosi quattordici punti e si comporta con coerenza fino alla fine del conflitto, anche se in questo modo finisce per scontentare gli Stati vittoriosi, che si aspettano condizioni più vantaggiose alla firma del trattato di Versailles (1919). L’opposizione di Wilson al sistema coloniale cozza contro gli interessi imperialistici di Francia e Gran Bretagna, che vorrebbero spartirsi i territori della Germania e dell’Impero ottomano. Alla fine, si giunge al compromesso del “mandato”, attraverso il quale la Società delle Nazioni assegna i territori tedeschi e turchi alle potenze mandatarie, che ricevono l’incarico di amministrarli e di condurli all’emancipazione. In realtà, questo principio verrà poco rispettato e il mandato si rivelerà per essere solo un colonialismo camuffato.

19. I portoghesi

Con la Carta del 1826 il Portogallo introduce un regime parlamentare ad imitazione di quello inglese, ma questo non impedisce l’aprirsi di un periodo di crisi, che è caratterizzato dal lento declino del potere monarchico, dall’instabilità politica e dalla crisi economica che, alla fine, porta al rovesciamento della monarchia e alla proclamazione della Repubblica (1910). La politica della Repubblica è decisamente laica e tende ad eliminare l’elemento religioso dal paese (soppressione degli ordini religiosi, laicizzazione dell’insegnamento, separazione di chiesa e stato, confisca dei beni della chiesa). In quanto alleata dell’Inghilterra, partecipa alla guerra mondiale (1916-18). Il paese entra in una fase di profonda crisi, che è segnata da ben sedici colpi di Stato in sedici anni (1910-1926), e che si conclude con l’instaurazione di una dittatura militare sotto il generale Camona, che chiama al governo l’economista Salazar (1928), il quale esercita di fatto il potere. Salazar scioglie i partiti politici (1934), introduce una Costituzione (1933) che instaura una repubblica corporativa, si riavvicina alla chiesa, con la quale firma un concordato (1940), durante la seconda guerra mondiale assume un atteggiamento neutrale, ma favorevole agli Alleati, aderisce alla Nato (1949), dà stabilità politica al paese, anche se il reddito medio rimane fra i più bassi d’Europa. Salazar esce di scena dopo un’emorragia cerebrale (1968) e due anni dopo muore.

18. Gli spagnoli

L’Ottocento è per la Spagna un secolo di declino, che è segnato dalla perdita di tutti i possedimenti coloniali e dall’incapacità di svolgere una parte di rilievo nella politica europea.

17. I giapponesi

Lo scioglimento dello shogunato e la restaurazione della monarchia assoluta (1867) segnano un momento di svolta nella storia del Giappone, che abolisce ufficialmente il vecchio feudalesimo (1871), apre i suoi porti allo straniero e cerca di portarsi alla pari con gli occidentali. Viene introdotto l’obbligo dell’istruzione e del servizio militare (1872), si inizia a costruire ferrovie (1872), si proclama la libertà religiosa (1884-9). Nel 1880 si formano i primi partiti politici e nel 1889 entra in vigore la Costituzione, che stabilisce il regime parlamentare. Il paese comincia a crescere sotto il profilo economico e ancor più sotto quello demografico, ciò che suscita il desiderio di nuovi spazi e nuove opportunità. Una politica imperialista sembra la migliore risposta possibile alle attuali esigenze del paese, e, per poterla attuare, i giapponesi si prefiggono di creare un valido apparato industriale e un esercito efficiente.
Così il paese comincia a crescere, sia sotto il profilo demografico sia sotto quello economico. La sua popolazione passa da 40 milioni nel 1890 al 54 milioni nel 1914 e il capitalismo avanza a passi da gigante: i giapponesi assorbono la tecnologia occidentale con la stessa rapidità con la quale, mille anni prima, avevano assorbito la civiltà cinese. Nello stesso tempo si rafforza il sentimento nazionalistico e si avvia una politica colonialistica, allo scopo di procurarsi le materie prime di cui il paese è carente e di creare nuovi mercati per il proprio prodotto industriale. La prima vittima è la Cina, che deve cedere al Giappone alcuni territori (guerra cino-giapponese, 1894-5). L’espansionismo nipponico finisce col confliggere con gli interessi della Russia ed è alla base di una guerra (1904-5), che si chiude con la vittoria del Giappone (1905), fatto che rivela i grandi progressi compiuti dal Giappone, che ora è considerato la prima potenza militare d’Asia. La vittoriosa del Giappone è accolta con grande sorpresa dell’Europa, perché è la prima volta che una potenza europea esce sconfitta da uno scontro con un paese di razza diversa e ciò, oltre ad infrangere il mito dell’imbattibilità militare della razza bianca, mette in dubbio le basi teoriche su cui si basa lo stesso colonialismo. Alla fine la Russia deve rinunciare ad ogni pretesa anche sulla Corea, che viene annessa dal Giappone (1910). Ecco come, in meno di mezzo secolo, il Giappone passa da paese oscuro ed emarginato a grande potenza mondiale. Da questo momento il mondo deve fare i conti con un “pericolo giallo”.

16. I russi

Nel 1815 la Russia fa parte dei paesi vincitori e, in quanto tale, può ampliare i propri confini, solo che adesso il suo sistema autocratico appare minato dalle idee liberali che si sono introdotte al suo interno ai tempi delle guerre napoleoniche e che hanno dato origine alla costituzione di società segrete rivoluzionarie. Alla morte di Alessandro I (1901-25), approfittando di problemi sorti per la sua successione, queste società segrete promuovono una rivolta militare, ma la cospirazione è sventata e repressa con ferocia dal nuovo zar Nicola I (1825-55), che persegue una politica antiliberale all’interno, dove istaura uno stato poliziesco, e aggressiva all’esterno, dove mira ad espandersi, tanto in Asia quanto nei Balcani.
Nonostante la politica di riforma dello zar Alessandro II (1855-81), che abolisce la servitù della gleba, ammoderna il sistema amministrativo, giudiziario e scolastico, e apre all’economia capitalistica, la Russia rimane un paese fortemente centralizzato, refrattario alle idee liberali e motivato ad incrementare la propria potenza, a cominciare dalla costituzione di una vasta confederazione panslava. Approfittando di una rivolta anti-turca scoppiata in Erzegovina (1875), la Russia attacca e sconfigge l’impero Ottomano, ma in un successivo congresso internazionale di Berlino (1878) deve rinunciare alle conquiste territoriali per non compromettere gli equilibri europei.
La politica di Alessandro III (1881-94) è di tipo reazionario e si prefigge lo scopo di restaurare integralmente l’autocrazia, ma il suo regime poliziesco non può impedire la diffusione in Russia delle idee marxiste. A partire dal 1880 un’ondata di scioperi agita il paese, che però è caratterizzata da una scarsa carica rivoluzionaria, dal momento che le masse contadine non hanno ancora acquisito una chiara coscienza dei loro diritti e rimangono sostanzialmente passive e fedeli allo zar. D’altra parte le forze governative reprimono con energia le manifestazioni e fanno sì che, nel complesso, in Russia regni una calma apparente.
Il figlio di Alessandro III, Nicola II (1894-1917), eredita una situazione alquanto delicata, soprattutto perché i contadini sono allo stremo e i movimenti marxisti si estendono come un’ombra minacciosa. A partire dal 1895, la Russia, che ha già conseguito importanti progressi in Estremo Oriente, si trova a competere con la potenza nipponica. Dopo aver risposto negativamente al Giappone, che chiede una spartizione amichevole delle zone di influenza in Oriente, si apre uno stato di conflitto armato russo-giapponese (1904-5), che si conclude con l’affermazione nipponica e col ritiro della Russia dalla Cina. La sconfitta militare aumenta lo scontento popolare e provoca un’ondata di scioperi, agitazioni contadine e veri e propri moti rivoluzionari, ma Nicola rifiuta di impegnarsi in una politica di riforme e si limita a proseguire nella politica reazionaria del padre. Incapace di cogliere la gravità della situazione, o fiducioso nei propri mezzi e nell’inattaccabilità del proprio potere, egli risponde con baldanza e, in due episodi, le milizie zariste sparano contro una folla pacifica di manifestanti (1905) e contro dei lavoratori in sciopero (1912), facendo centinaia di vittime e indebolendo il consenso popolare al regime.
È in questi anni che si affermano spontaneamente le assemblee dei delegati di fabbrica, i cosiddetti soviet (= consigli), con la precisa volontà di portare avanti la loro azione politica di stampo popolare e rivoluzionario, che si ispira alle idee di Marx e vuole instaurare una dittatura del proletariato in sostituzione del sistema zarista. A partire dal 1905, anno di nascita del primo soviet a Pietroburgo, nell’arco di pochi anni il sistema dei soviet si estende a tutto il paese. Il nuovo spirito è incarnato nel Partito socialdemocratico russo, fondato nel 1898, nel quale si riconoscono due principali orientamenti: quello, maggiore, dei menscevichi, che sono favorevoli ad una politica di stampo liberale, che tenga conto delle istanze borghesi e punti all’europeizzazione della Russia, e quello, minore, dei bolscevichi, i quali, ritenendo irrealizzabile il programma menscevico in un paese arretrato come la Russia, privo di tradizioni liberali e di una classe borghese, sostengono la necessità di espropriare i ricchi possidenti e di distribuire “tutta la terra al popolo”, realizzando la “dittatura del proletariato” in Russia, l’unica ritenuta in grado di avviare al socialismo, e la “rivoluzione socialista mondiale”, perché la rivoluzione in un solo paese sarebbe incompleta.
Alla fine ha la meglio la corrente bolscevica, che ha in Lenin (1870-1924), un rampollo della piccola nobiltà, uno dei principali ideologi. Egli studia a si laurea in giurisprudenza (1891), ma non rivela le doti del valente avvocato, mentre manifesta di avere la stoffa dell’abile politico e dell’incomparabile trascinatore. Suo fratello Aleksandr è stato condannato a morte per aver partecipato ad un attentato allo zar. Anche Lenin ha guai con la giustizia e viene prima deportato in Siberia, poi esiliato. Nel 1916, mentre è esule in Svizzera, sostiene la necessità di trasformare la guerra in rivoluzione. L’anno seguente i tedeschi lo aiutano a rientrare in patria, sperando che le sue idee rivoluzionarie possano contribuire a determinare il crollo del regime zarista.
Nella sua azione Lenin si appoggia ai soviet, nei quali vede l’espressione politica del potere operaio. Contrario alla guerra, egli ritiene preminente su ogni altro problema “la salvezza della rivoluzione” e invita la classe operaia a lottare a favore di una pace basata sul diritto dei popoli all’autodeterminazione (Manifesti di Zimmerwald e di Kienthal, 1915, 1916). Infuoca gli animi delle folle con frasi del tipo: “quando ad ogni cuoca insegneremo a dirigere lo Stato, nessuna forza al mondo sarà in grado di vincere la rivoluzione socialista”. Da questa rivoluzione egli si aspetta la nascita di un “uomo nuovo” e di un mondo più giusto, senza classi e senza Stato, senza oppressione e senza sfruttamento, dove ciascuno abbia pari opportunità di estrinsecare il proprio talento e a ciascuno sia dato secondo le sue esigenze. Questo traguardo, secondo Lenin, potrà essere raggiunto solo con la rivoluzione armata, l’unica in grado di abbattere il regime borghese e di trasferire la proprietà dei mezzi di produzione dai capitalisti allo Stato.
Impadronitosi del potere (novembre 1917), Lenin cambia il nome del Partito bolscevico in Partito comunista, PCUS (1918) e, ponendosi come obiettivo primario “la salvezza della rivoluzione”, avvia trattative di pace, disimpegnando la Russia dal conflitto (Pace di Brest-Litovsk, 3.3.1918). La Rivoluzione russa del 1917 viene subito accostata alla Comune di Parigi del 1871, perché entrambe considerano la DR una falsa democrazia e, più precisamente, una forma di governo al servizio degli interessi della classe capitalista, e vogliono realizzare una DD. Perciò la democrazia dei soviet viene contrapposta a quella borghese dei paesi capitalisti. In realtà la DD non sarà mai realizzata e tutte le buone intenzioni sono naufragheranno definitivamente col crollo del comunismo nel 1989. Inutilmente le potenze dell’Intesa cercano di opporsi alla nascita di uno Stato anticapitalista.
La prima Costituzione sovietica, approvata il 10.7.1918, segna la nascita dell’URSS. Essa riconosce il diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni di entrambi i sessi (l’estensione del diritto di voto alle donne è una conquista della Rivoluzione russa), purché socialmente utili (vengono esclusi quelli che vivono di rendita, gli addetti ai culti religiosi e pochi altri), la libertà di coscienza, di pensiero, di riunione e di associazione. Ampi diritti sono anche riconosciuti alle minoranze linguistiche e razziali, mentre alle singole Repubbliche viene concessa la facoltà di separarsi dall’Unione qualora lo vogliano. Dopo essere stati gli artefici della rivoluzione, i soviet divengono la base dell’intera vita politica dello Stato comunista e governano il paese attraverso i loro rappresentanti liberamente eletti all’interno di un unico partito politico, quello bolscevico. “I soviet sono istituti di democrazia diretta, attraverso i quali le masse si governano da sé. Grazie ad essi il popolo non delega la propria sovranità e il suo esercizio ad istituti di potere separati. Ciò non significa che il soviet elimini la rappresentanza: al contrario i soviet sono precisamente organismi rappresentativi, ma che organizzano la rappresentanza in modo che essa sia non separata, ma sottoposta al permanente controllo dell’assemblea” (GRUPPI 1969: 378).
Nel 1919 viene costituita l’Internazionale comunista (Comintern) con il compito di unire il proletariato di tutti i paesi del mondo e guidarlo a quel risultato vittorioso che non ha saputo dargli la socialdemocrazia. Da questo momento il partito comunista si affermerà in molti paesi, sia in Europa che nel resto del mondo, dando l’impressione di rappresentare una reale alternativa al capitalismo. Sempre nel 1919, il partito comunista riesce a conquistare il potere in Ungheria, sia pure per pochi mesi. Nello stesso anno, un analogo tentativo fallisce in Austria. Questi eventi profilano lo spettro minaccioso del comunismo nel mondo, per difendersi dal quale alcuni paesi europei preferiranno gettarsi nelle braccia del fascismo.
Il governo bolscevico, tuttavia, non si muove secondo le direttive di una democrazia partecipativa ma, facendo ricorso alle maniere forti, si oppone all’autogestione diretta dei lavoratori e riduce i soviet a semplici strumenti del Partito. E ciò avviene da subito, mentre Lenin è ancora in vita. Come spiegare questa netta distanza tra la teoria di un progetto democratico e la realtà di una sua applicazione autoritaria? Secondo Roy Medvedev, la ragione va cercata in un errore di valutazione di Lenin, il quale vorrebbe applicare il suo modello rivoluzionario in un paese che è assolutamente immaturo per poterlo accogliere e realizzare compiutamente. Il fatto poi che la rivoluzione sia, comunque, in qualche modo accolta e realizzata si spiegherebbe con la politica impopolare del governo zarista oltre che per lo stato di guerra, che provoca scontento ed esasperazione nell’animo della gente (CHAMBERLAIN 1976).

15. Gli ottomani

Corrotto e incapace di adeguarsi ai tempi che cambiano, l’impero Ottomano attraversa, nell’Ottocento, un periodo di profonda crisi, economica e militare, nei confronti della quale i sultani si rivelano impotenti. Dopo il tentativo di riformare l’Impero da parte di Selim III, che fallisce a causa dell’insuperabile opposizione dei giannizzeri, ci riprova Mahmud II (1808-39), il quale, questa volta, si premunisce attuando una politica tesa all’eliminazione dei giannizzeri e ponendo il suo movimento riformatore sotto l’insegna dell’Islam. Nonostante il suo tentativo di “occidentalizzare” l’Impero e rafforzare l’esercito, la situazione rimane critica e molte popolazioni ne approfittano per insorgere e puntare alla propria indipendenza nazionale. L’Inghilterra è contraria allo smembramento dell’Impero, che darebbe eccessivo potere alla Russia, mentre Francia e Austria esibiscono un comportamento altalenante, che cambia a seconda del momento e comunque è teso a procurarsi i maggiori vantaggi possibili: l’Austria è interessata ad estendere il suo potere sui Balcani, la Francia in Egitto e in Medio Oriente.
Alla fine, la dissoluzione dell’Impero appare inevitabile e tutti cercano di approfittarne, tanto le popolazioni sottomesse, che iniziano la lotta per l’indipendenza, quanto alcuni paesi europei che, come belve fameliche, ne dilaniano le carni. Il primo paese a rendersi indipendente è l’Egitto (1805), seguito da Grecia (1829) e Serbia (1830), mentre la Francia strappa l’Algeria (1830). Della crisi ottomana cerca di approfittare anche la Russia, che punta a crearsi uno sbocco nel Mediterraneo, essendo contrastata dall’Inghilterra. La guerra di Crimea (1853-6) origina proprio da un tentativo di aggressione ai danni dell’impero da parte della Russia, contro la quale intervengono gli inglesi, affiancati, nella circostanza, dalla Francia e dal Piemonte, che hanno la meglio. Nonostante lo scampato pericolo, il declino dell’Impero prosegue inarrestabile. Dapprima è Bulgaria a rendersi indipendente (1870). Poi il Congresso di Berlino (1878) riconosce l’indipendenza di Serbia, Romania e Montenegro, e stabilisce la cessione della Bosnia-Erzegovina all’Austria e di Cipro alla Gran Bretagna. Infine, si registra la perdita di Tunisia e Marocco, che passano alla Francia (rispettivamente nel 1881 e 1912), della Libia e del Dodecanneso che sono conquistati dall’Italia (1912), oltre all’indipendenza di Bulgaria (1885) e Creta (1898). Nel tentativo di porre fine a questo processo di sgretolamento, un gruppo di ufficiali e funzionari (i cosiddetti Giovani Turchi) s’impadroniscono del potere e rafforzano l’autorità centrale, ma invano: la prima guerra mondiale si conclude con la definitiva scomparsa dell’Impero ottomano.

14. Gli italiani dal 1815 al 1870

Il Congresso di Vienna ha posto sotto l’Austria, direttamente o indirettamente, molte regioni italiane: il Trentino, il Lombardo-Veneto, il granducato di Toscana, i ducati di Modena e di Parma e lo Stato Pontificio. Nello stesso tempo, il Piemonte si è rafforzato annettendo Genova e guadagnando uno sbocco sul mare, grazie anche alla complicità di Londra, che ha interesse a creare un forte Stato cuscinetto tra Francia e Austria. A sud ci sono i Borboni, che governano in modo autoritario. Riguadagnato il trono, Vittorio Emanuele I (1802-21) pensa di aver fatto un brutto sogno e la sua principale preoccupazione è quella di riportare indietro le lancette del tempo, a prima del 1799; si sente ferito e umiliato dai recenti avvenimenti e vuole ripristinare integralmente l’ancien régime. Dunque, fa abolire le leggi e le istituzioni napoleoniche: tutto ciò che ricorda i francesi dev’essere cancellato e dimenticato. Ma, purtroppo per lui, i tempi sono cambiati e procedono in una direzione che lui non ha il potere di invertire.
La tensione nazionalistica serpeggia nel paese, ma riesce a scuotere solo gli animi di una piccola minoranza di intellettuali e patrioti, mentre lascia del tutto indifferenti le masse. Esso si manifesta solo a Napoli (1820) e in Piemonte (1821), ad opera dei carbonari, che, seppur condannati da Pio VII (1821) e osteggiati da Leone XII (1823-29), non desistono dalla loro azione. Nel 1831 i moti rivoluzionari nazionalisti divampano in Romagna, Umbria, Marche e Stato Pontificio, con lo scopo di costituire governi repubblicani e liberali. Essi sono condotti da piccoli gruppi elitari, senza il sostegno delle masse e con l’opposizione della chiesa. Altri rivoluzionari vogliono un’Italia unita e agitano la coccarda tricolore, chiedendo al papa di rinunciare al potere temporale.
Anche il Piemonte è investito dalla bufera e Vittorio Emanuele, piuttosto che concedere ai rivoluzionari la costituzione, preferisce abdicare a favore del fratello Carlo Felice (1821), che in quel momento si trova a Modena. In qualità di reggente, tocca a Carlo Alberto (1798-849) affrontare la situazione, e il giovane principe compie un gesto di cui si pentirà, ossia concede la costituzione (14.3.1821), subito sconfessato da Carlo Felice, che intanto è accorso in Piemonte. Carlo Alberto si mostra dispiaciuto per quello che ha fatto e, volendo farsi perdonare, assume un risoluto atteggiamento antiliberale. Salito al trono (1831), poi, si impegna in una politica assolutista e clericale e reprime duramente i moti carbonari e mazziniani. Nello stesso tempo, avvia un processo di riforme e di modernizzazione del paese e introduce un nuovo codice civile, anche se ciò non basta a far di Torino una città prospera. A fronte dell’avviata industrializzazione, infatti, la disoccupazione è alta, i salari bassi, lo stato sociale pressoché inesistente e la povertà colpisce circa un quarto della popolazione. Non sorprende perciò l’iniziativa del canonico Cottolengo, che decide di aprire un’infermeria ove dare accoglienza ai malati privi di diritti (1828). Nel 1839 Carlo Alberto riconosce principe ereditario il figlio Vittorio Emanuele, il cui aspetto di popolano gaudente contrasta coi tratti raffinati e la rigida eleganza del padre.
Mentre si svolgono questi eventi, è eletto papa Gregorio XVI (1831-46), che si rivelerà “l’avversario dichiarato di tutte le forme di liberalismo” (RENOUVIN: 1974). Egli risponde lanciando un appello all’Austria, che interviene con un esercito e soffoca le rivolte. In questo clima di tensione, il pontefice pubblica l’enciclica Mirari vos (1832), in cui condanna le libertà di coscienza, di stampa e di pensiero, e, pochi giorni dopo, invita i cristiani all’ubbidienza a tutte le autorità costituite (Sollicitudo ecclesiarum, 1832). Nel 1836 i moti si ripetono e, ancora una volta, sono soffocati dall’Austria. Mentre combatte contro lo spirito rivoluzionario dilagante, Gregorio non trascura di arricchirsi, insieme ai suoi parenti.
È ancora lontana dai cattolici l’idea di uno Stato democratico. Secondo Vincenzo Gioberti, auspicare il governo del popolo sarebbe come pretendere che i figli generino i genitori o gli alunni insegnino ai maestri. Un buon governo deve essere autoritario e non partecipativo. Il migliore dei governi è la monarchia cristiana oppure una federazione di Stati sotto la presidenza del papa. Quest’ultima posizione trova ampia diffusione nella popolazione e viene condivisa dalla quasi totalità del basso clero. L’unica forma di democrazia concepita è quella legata al censo. Ecco, per esempio, come argomenta Antonio Rosmini: l’uomo è essenzialmente “persona”, ossia un soggetto spirituale avente dignità di fine, e da questo suo status deriverebbe il diritto alla proprietà privata e la distribuzione ineguale delle ricchezze; i ricchi hanno diritto a governare e ad eleggere i propri rappresentanti in ragione delle tasse che pagano.
Un po’ più aperto è il pensiero politico di uno sparuto drappello di intellettuali laici che, richiamandosi all’illuminismo, esprimono una concezione antispiritualistica e anticlericale. In generale, nel 1848, i rivoluzionari pensano a Stati singoli a governo monarchico costituzionale, ma vi sono alcuni, come Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio, che scorgono la necessità storica di un’unità nazionale sotto l’egemonia del Piemonte, altri, come Carlo Pisacane, che invocano una politica di tipo individualistico-anarcoide, auspicano l’abolizione di ogni gerarchia, ogni autorità e ogni proprietà e una nazione costituita da tanti comuni amministrati democraticamente: “la nazione è un’associazione di comuni, come il comune è un’associazione di individui” (VALENTINI 1995: 233-45). Una posizione particolare è quella di Carlo Cattaneo, che aspira ad un’Italia federale con governi locali partecipativi, ad una federazione di popoli e di Stati Uniti di Europa.
Una speranza per i rivoluzionari si apre con l’elezione al soglio pontificio di Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assume il nome di Pio IX (1846-1878). Uomo passionale ed emotivo, abile parlatore, contrario alla presenza austriaca in Italia, ha fama di essere animato da profondo zelo e da sentimenti liberali e patriottici e, anche se è accreditato di scarsa esperienza politica, è visto come l’uomo giusto per quel progetto federale tanto caro al Gioberti. Il suo pontificato inizia con una misura di normale amministrazione, l’amnistia ai condannati politici, che è seguita dal riconoscimento di una parziale libertà di stampa. Queste misure bastano a conquistargli l’ammirazione di tutti coloro che cullano sogni nazionalistici e indipendentisti, tanto che Mazzini si dichiara pronto a mettersi al suo servizio nella lotta per l’indipendenza nazionale (1847). Due anni dopo concede una costituzione moderata. Il suo scopo è quello di conservare il potere, in un momento di grande fermento nazionalistico, ma il gesto viene interpretato dai patrioti come un segno di apertura e complicità coi loro progetti. Quando poi pronuncia la frase “Gran Dio benedite l’Italia”, molti patrioti si confermano nell’idea di poter contare su di lui nella lotta per l’indipendenza dall’Austria. Ben presto si accorgeranno di essersi illusi.
Intanto l’ondata rivoluzionaria cresce e travolge anche il re di Sardegna, Carlo Alberto, che, con grande riluttanza, concede la Costituzione (4.3.48), che però viene chiamata Statuto, allo scopo di evitare ogni riferimento alla rivoluzione francese. Lo Statuto mantiene la monarchia ereditaria, cui però si affiancano due Camere: quella del senato, i cui membri sono nominati dal re, e quella dei deputati, che sono eletti dai cittadini più ricchi. Tutti i cittadini vengono riconosciuti uguali dinanzi alla legge e portatori di diritti civili e politici, la libertà di stampa è riconosciuta, ma entro certi limiti, il cristianesimo è proclamato religione di Stato. Lo Statuto albertino, che di fatto costituisce un tentativo di conciliare i princìpi della monarchia assoluta con quelli dell’illuminismo, diventerà, alcuni anni dopo, la Costituzione del Regno d’Italia (1860), che rimarrà in vigore fino al 1946.
Fiducioso nelle proprie forze, Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria, dando così inizio alla prima guerra d’indipendenza (1848). A sostegno delle truppe piemontesi accorrono volontari da ogni parte d’Italia, e perfino soldati inviati dal papa, il che fa di Pio IX forse l’uomo più popolare e amato d’Italia, ma solo per poco. Ben presto, infatti, Pio IX si ritira dalla lotta e comincia a manifestare un evidente disagio ad adattarsi al governo costituzionale, che pure è stato lui a concedere. Sentendosi traditi i patrioti insorgono e inducono il papa a fuggire da Roma (24.11.48), decretano la fine del potere temporale dei papi e proclamano la repubblica (9.2.49), che affidano ai triumviri Mazzini, Saffi e Armellini. Il sogno dura poco, perché i francesi conquistano la città (3.7.49) e la riconsegnano al papa, che si affretta ad abrogare la costituzione (12.9.49).
La guerra si conclude con la sconfitta di Carlo Alberto, che abdica a favore del figlio Vittorio Emanuele, ma anche con la consapevolezza che, da sola, l’Italia non è in grado di piegare l’Austria e nulla essa deve aspettarsi da un papa, che ha dimostrato di essere profondamente illiberale e antidemocratico. Del resto Pio IX non fa nulla per apparire diverso agli occhi della gente e si irrigidisce nel suo atteggiamento di opposizione all’unità d’Italia, mentre si impegna in una strenua difesa del proprio potere temporale, da lui ritenuto condizione necessaria per l’indipendenza spirituale della chiesa. Condanna le opere dell’abate Antonio Rosmini, che propone “di fare eleggere i vescovi dal clero e dal popolo, di donare i beni della Chiesa ai poveri, di abbandonare i rapporti privilegiati con le autorità civili” (GUERRI 1995: 181). Insomma, persevera nella sua politica reazionaria, così che, nel volgere di un biennio, diviene uno degli uomini più odiati d’Italia.

14.1. Mazzini
Nato a Genova nel 1805, si laurea in giurisprudenza nel 1827 e, nello stesso anno, aderisce alla Carboneria. Arrestato nel 1830 deve riparare in esilio a Marsiglia, dove fonda la Giovine Italia (1831). È convinto che il popolo d’Italia deve conquistare la propria indipendenza in modo diretto e senza l’intermediazione di eserciti monarchici. Spinto dagli insuccessi, si reca in Svizzera, dove fonda la Giovine Europa (1834), allo scopo di creare una solidarietà attiva fra tutti i popoli in lotta per la propria liberazione. Partecipa al tentativo di instaurare la repubblica a Roma, assumendo la carica di triumviro (29.3.1949), ma la repubblica cade e Mazzini deve di nuovo riparare in Svizzera e poi in Inghilterra. È ancora convinto che basta una scintilla a fare esplodere la rivoluzione popolare in Italia e promuove dei tentativi insurrezionali, che falliscono. Contrario all’alleanza francese (1859) e alla creazione di un regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia, Mazzini si batte per un’Italia unita e repubblicana. Amareggiato per l’abbandono di molti suoi seguaci, muore a Pisa sotto falso nome (1872).

Il fallimento dei moti mazziniani e il voltafaccia di Pio IX giocano a favore della casa Savoia, che rappresenta l’ultima speranza per un’Italia unita e indipendente e che, alla fine degli anni Cinquanta, può già accarezzare l’idea di estendere il proprio regno a tutta l’Italia, sfruttando l’ondata rivoluzionaria e la disponibilità di aiuto offertole da Napoleone III, che mira ad indebolire l’Austria e a fare dell’Italia uno Stato satellite. In realtà l’imperatore francese non pensa affatto ad un’Italia unita. Egli non vuole favorire la costituzione di una grande monarchia competitiva, pensa semplicemente ad una confederazione di piccoli Stati, come quella tedesca e altrettanto impotente. L’idea di un regno dell’Alta Italia è gradita tanto alla Francia quanto alla Gran Bretagna, che, però, entrambe, vorrebbero avere sotto il proprio controllo. Cavour (1810-61) giocherà anche su queste rivalità per raggiungere i suoi obiettivi, che sono quelli di un’unità nazionale ben più ampia e si muove con abilità e accortezza, prima alleandosi con Napoleone III, poi brigando perché scoppi la seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria (1859). Cavour vuole una “libera Chiesa in libero Stato”, ma Pio IX risponde con la scomunica. Intanto, nonostante le energiche proteste di Pio IX, l’Emilia insorge (1859): vuole staccarsi dallo Stato Pontificio per annettersi al Piemonte. Lo stesso fa la Toscana. La guerra si conclude con l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna. Non è quello che Cavour sperava, ma la sua delusione è compensata dai plebisciti, che decretano l’annessione dell’Emilia e della Toscana (marzo 1860).
Nel 1860, con la complicità di Cavour, Giuseppe Garibaldi sbarca in Sicilia e risale la penisola, causando la dissoluzione dello Stato borbonico. Intanto, si continua a ricorrere con successo all’arma bonapartista del plebiscito. Il 21.10.60 le province napoletane e la Sicilia vengono annesse al Piemonte a seguito di deliberazione plebiscitaria, imitate, due settimane dopo, da Marche e Umbria. Inutilmente il papa rinnova la sua scomunica. Il 17 marzo 1861 viene proclamato il regno d’Italia. Pio IX scomunica anche questo. Il re Vittorio Emanuele II mantiene in vigore lo Statuto, meritando il titolo di “re galantuomo”. L’unità d’Italia è costituita, anche se in modo incompleto: mancano lo Stato della Chiesa, alcune regioni (Veneto, Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia), che sono sotto il dominio dell’Austria, e Mantova. Da questo momento la politica del re è orientata ad annettere i territori mancanti e a fare di Roma la capitale del regno, ma la città è nelle mani del papa, che non ha alcuna intenzione di cedere una briciola del proprio potere temporale.
Pio IX sente che il suo trono è relativamente al sicuro perché sa di poter contare sull’appoggio dell’imperatore francese, Napoleone III, il quale non accetterebbe mai la creazione di un grande regno rivale e ha interesse di non inimicarsi il mondo cattolico francese, perciò, nell’allocuzione Maxima quidam laetitia (1862), ribadisce la necessità del potere temporale della chiesa. Quindi pubblica un documento, il Sillabo (1864), dove elenca, in 80 frasi, i principali errori della sua società, tra i quali sono inclusi il comunismo, il socialismo, il liberalismo (insieme alla libertà di religione, alla libertà di pensiero e di stampa e alla richiesta di istituire una scuola pubblica laica), ed anche la teoria della divisione tra Stato e Chiesa. Insomma, “il Sillabo è uno dei documenti più significativi della lotta del Vaticano contro il liberalismo, lo Stato di diritto e la civiltà moderna in generale” (Luttwak, Creperio Veratti 2000: 560). Concretamente, ciò significa che il papa non ha alcuna intenzione di accettare la «modernità». Per non turbare gli equilibri con la Francia, nel 1865 la capitale d’Italia viene trasferita da Torino a Firenze, quasi a voler dire che Roma non rientra tra gli obiettivi del re. Per il momento la situazione è tranquilla.
Mentre i potenti sono impegnati nei loro rapporti di forza e nella difesa dei loro interessi, la situazione delle masse contadine nel Mezzogiorno versa in condizioni critiche. Infatti, dopo un’iniziale fase di euforia, in cui sembra che stia iniziando un periodo di profondo cambiamento democratico, del quale molti contadini cercano di approfittare dando l’assalto alle proprietà dei grandi signori e dividendosi i loro latifondi, già prefigurando la fine della propria miseria, i fatti stanno a dimostrare che ciò è solo un sogno. Garibaldi, infatti, mantiene gli antichi privilegi dei ricchi possidenti e per le classi più deboli nulla cambia, nemmeno dopo che il potere è passato alla casa Sabauda, che anzi non esita ad imporre nuove tasse e nuovi doveri, come la leva militare obbligatoria, in precedenza sconosciuta, che sottrae manodopera alle famiglie.
Lo scontento popolare, abilmente alimentato dai borbone e dal papa, dilaga fino ad esplodere al grido “Viva il Borbone”. Organizzati in bande armate, i popolani si accaniscono contro i membri della borghesia liberale, gli archivi dello Stato e gli uffici di leva, dando vita al fenomeno del brigantaggio. Lo Stato deve ricorrere alla mobilitazione massiccia dell’esercito (1861), che impiega circa quattro anni per riportare la situazione sotto controllo, lasciando dietro di sé un numero impressionante di morti, superiore a quello di ogni altra guerra risorgimentale. Il brigantaggio continuerà a sopravvivere in forma endemica nelle campagne almeno fino al 1870 e, in Sicilia, contribuirà ad alimentare un nuovo fenomeno di criminalità organizzata, che prenderà il nome di mafia.
La Terza guerra d’indipendenza s’inserisce nel contesto della guerra tra la Prussia di Bismarck, di cui l’Italia è alleata, e l’Austria. Pur se duramente sconfitta dall’Austria, l’Italia trae vantaggio dall’affermazione della Prussia e guadagna il Veneto (1866).
Col passare degli anni, Pio IX rimane fermo sulle sue posizioni e continua a non vedere di buon occhio la proclamazione del Regno d’Italia, finché, qualche anno dopo (1868), con il famoso non expedit (non conviene), invita tutte le forze cattoliche a non partecipare alla politica. La rottura col re non può essere più netta, ma questo non preoccupa eccessivamente il papa, il quale continua a contare sull’appoggio dell’imperatore francese, che però viene improvvisamente meno, allorché Napoleone III, sconfitto dalla Prussia, deve rinunciare al trono (1870).
Approfittando del momento favorevole, il generale Raffaele Cadorna entra a Roma col suo esercito, proprio mentre è in corso il Concilio Vaticano I (1860-70), che, per volere del pontefice, si affretta a proclamare il dogma dell’infallibilità papale in materia religiosa : deve risultare a tutti chiaro quanto straordinaria sia l’autorità di quell’uomo che adesso viene ingiustamente privato del suo potere temporale. “Così la chiesa cattolica, per un’istintiva reazione di difesa, si centralizza dandosi all’assolutismo” (SCHNERB 1957: 216). Nelle encicliche Respicientes (1870) e Ubi nos (1871), Pio IX non riconosce il nuovo Regno e, imbronciato, si rinchiude fra le mura del Vaticano, dichiarandosi, sdegnosamente, prigioniero politico. Rifiuta, inoltre, l’assegno annuale di tre milioni e mezzo di lire, che lo Stato gli offre in cambio dei territori perduti, quegli stessi territori che i suoi predecessori avevano a suo tempo sottratto a longobardi e bizantini con la forza dei franchi. Nonostante che il re si affretti ad assicurare al papa la piena libertà nell’esercizio delle sue funzioni religiose, oltre al possesso dei palazzi del Vaticano (Legge delle guarantigie, 1871), Pio IX scomunica re e governanti e chiude così totalmente i suoi rapporti con lo Stato. Nello stesso anno, nonostante le reiterate proteste del papa, Roma diviene capitale d’Italia.

14.2. Che cos’è il Risorgimento
Volendo fare il bilancio del Risorgimento, possiamo dire che esso consiste nell’aver trasformato una pluralità di Stati in un unico Stato, una pluralità di nazioni in una sola nazione, per iniziativa di una ristretta élite di eroi e intellettuali oltre che di un re, e col determinante apporto della forza delle armi, ma senza un apporto sostanziale delle masse. L’Italia risorgimentale è una nazione senza popolo.

13. I tedeschi

Nel 1815 la Germania è ancora divisa e l’unico paese in grado di guidarne l’unità nazionale è la Prussia, che intanto si limita a realizzare un’unità economica (1834), consentendo una crescita industriale tale da rendere il paese competitivo con le altre grandi potenze. Intanto, i cantori dello spirito nazionale, come Gottfried Herder (1744-1803) J.G. Fiche (1762-1814) e Friederich Schlegel (1772-1829), fanno la loro parte e contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’ideale nazionalistico. Il resto lo farà Bismarck, uno dei capi dell’estrema destra, che è stato chiamato al potere dal re prussiano Guglielmo I nel 1862. Allo scopo di unificare la Germania sotto l’egemonia della Prussia, Bismarck conduce un’abile politica che inizia dalla riorganizzazione militare del paese per poi passare alla preparazione di una guerra contro gli Asburgo, che si conclude con la vittoria di Sadowa (1866) e l’emancipazione della Germania dall’Austria. Volge quindi la propria attenzione alla Francia e, dopo aver provocato Napoleone III sì da indurlo a dichiarare guerra, lo sconfigge a Sedan (1870), creando così le condizioni per proclamare Guglielmo I imperatore tedesco (1871) e portare a compimento l’unità della Germania.
Anche se alcune conquiste coloniali vengono realizzate da gruppi privati in Africa, in Togo e in Camerun (1884-5), Bismarck rifiuta di impegnarsi in una politica imperialista, preferendo concentrarsi sui problemi interni, che, secondo lui, sono costituiti principalmente dall’avanzata dei socialisti. Il suo obiettivo è quello di modernizzare il paese, laicizzandolo e adeguandolo ai principî liberali. Nel 1863 Ferdinad Lassalle fonda l’”Associazione generale dei lavoratori”, il primo partito organizzato della Germania, che vuole creare cooperative di lavoratori e chiede il suffragio universale. Nel 1875 esso confluisce nel “Partito operaio socialdemocratico tedesco”, d’ispirazione marxista, che è stato fondato sei anni prima.
I rapidi successi dei socialisti spingono Bismarck ad affrontare la questione sociale e lo fa prima emanando leggi repressive (1878), poi, allo scopo di evitare uno scontro frontale e nel tentativo di battere le sinistre con le loro stesse armi, avviando un’intelligente politica di riforme (assicurazione contro le malattie, 1883; assicurazione contro gli infortuni, 1884; assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, 1884), che ha l’effetto di porre lo stato sociale della Germania all’avanguardia nel mondo, anche se non riesce a distogliere gli operai dal socialismo. Nel 1890, in occasione del congresso di Erfurt, il Partito operaio socialdemocratico tedesco elabora un Programma, che resterà a lungo un punto di riferimento per le sinistre in Europa.

13.1. Il programma di Erfurt
Il programma prevede un articolato piano di riforme democratiche, i cui punti salienti sono la trasformazione della proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà sociale, il suffragio universale con votazione segreta per tutti i cittadini superiori a vent’anni e senza differenza di sesso, l’istituzione del referendum di proposta e di rigetto, la libertà di parola e di associazione, la dichiarazione della religione come questione privata, l’istituzione di una scuola obbligatoria e gratuita, la gratuità dell’amministrazione della giustizia e delle prestazioni mediche, giudici eletti dal popolo, l’abolizione della pena di morte, la riduzione della giornata lavorativa a otto ore con diritto al riposo settimanale, il divieto del lavoro per i minori, la sicurezza degli impianti, un sistema di previdenza sociale, tasse progressive sul reddito e sulla proprietà.

Desideroso di intraprendere una politica coloniale di grande respiro e di realizzare una “Grande Germania”, comprendente Austria, Belgio e Olanda, Guglielmo II (1888-1918) costringe Bismarck a lasciare il potere (1890) e, dopo aver fondato la Lega pantedesca (1891), che proclama il diritto dei popoli civilizzatori all’espansione e rivendica il ruolo egemone della Germania in Europa, si lancia in una decisa corsa agli armamenti, finendo per suscitare prima l’inquietudine e poi l’ostilità della Gran Bretagna e creando le condizioni favorevoli alla guerra.
Intanto le sinistre avanzano e, nel 1912, i socialdemocratici diventano il primo partito della Germania. Il fatto che essi non si oppongano minimamente all’esplosione del conflitto mondiale del 1914, induce una minoranza a staccarsi e a fondare il “Partito socialdemocratico indipendente tedesco”, Uspd (1917), la cui ala sinistra, a sua volta, si stacca e fonda il “Partito comunista tedesco”, Kpd (1918). Ai margini dei partiti ufficiali vanno sorgendo spontaneamente, in Germania, a partire dal 1918, dei consigli di operai e di soldati, simili ai soviet ma indipendenti da questi, favoriti anche dal pensiero di stampo comunista di alcuni intellettuali di lingua tedesca, come Otto Rühle, Hermann Gorter, Anton Pannekoek, Karl Korsch e Paul Mattick, che aspirano alla presa del potere da parte della classe operaia.
Accanto alle forze di sinistra, ci sono anche organizzazioni di centro e di destra. Tra queste ultime, si distinguono alcuni gruppi che recriminano contro la pace di Versailles e vogliono restituire la grandezza perduta al loro paese. Nel gennaio 1919 essi fondano il “Partito nazionalsocialista”, Nsdap. Poco dopo, a Weimar, viene varata la nuova Costituzione della Repubblica (agosto 1919), che si richiama ai principi liberali e riconosce i diritti individuali e tutela la proprietà privata.

12. Gli inglesi

Alla fine delle guerre napoleoniche, l’Inghilterra è la maggiore potenza marittima e la prima potenza industriale a livello mondiale, e tale rimane per tutto l’Ottocento, periodo che, in gran parte, corrisponde al regno della regina Vittoria (1837-1901) ed è perciò chiamato “vittoriano”. In campo internazionale, essa tende a consolidare la sua posizione e ad estendere il suo impero coloniale, sul fronte interno deve far fronte ai problemi posti dal sistema industriale, che è già avviato da anni.
Le prime conquiste sociali al mondo sono realizzate dagli inglesi: nel 1822 viene abolito il Test Act, che impediva ai non-anglicani di accedere al pubblico impiego, e, sette anni dopo, i cattolici divengono cittadini con pieni diritti; nel 1824 si abolisce la legge che vieta agli operai di associarsi, e ciò segna l’inizio delle prime organizzazioni operaie; nel 1832 si attua una riforma elettorale che consente una più equa rappresentanza parlamentare e amplia il numero degli elettori; nel 1833 si abolisce la schiavitù e l’impiego in attività lavorative dei ragazzi al di sotto dei nove anni. Il movimento riformatore non si arresta qui e, infatti, nel 1838, su iniziativa di un’associazione artigiana londinese e di alcuni intellettuali di estrazione operaia, viene redatta una petizione al parlamento che prende il nome di Carta, a ricordo della Magna Charta del 1215. Si chiede il suffragio universale maschile, il voto segreto, l’abolizione del censo per i candidati al parlamento, la libertà di stampa, la riduzione della giornata lavorativa a dieci ore, diritti sindacali e l’assistenza dignitosa per poveri e disoccupati.
Il fallimento di uno sciopero generale proclamato dai cartisti (1842) dimostra che la popolazione non è ancora pronta per recepire quel genere di richieste e, a partire dal 1848, il cartismo declina lentamente, per riemergere qualche tempo dopo nelle Trade unions, le unioni sindacali inglesi (1868). Nel 1872 viene riconosciuto il diritto alla segretezza del voto e, due anni più tardi, il suffragio universale maschile. Poi è la volta del limite delle 8 ore lavorative per i lavoratori delle miniere e della pensione di vecchiaia (1908). Nel 1911 le donne, le cosiddette suffragette, cominciano a rivendicare per sé il diritto di voto e, dopo pochi anni, la loro rivendicazione diventa conquista. Il suffragio femminile, che viene riconosciuto in Inghilterra nel 1918, apre un importante capitolo nella storia della DR.