domenica 13 settembre 2009

07. Il capitalismo colonialista

A livello mondiale, il periodo compreso fra il 1840 e il 1900 fa segnare in alcuni Stati, come la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, il Giappone e gli Stati Uniti d’America, importanti progressi in ambito tecnico-scientifico, che stanno alla base della cosiddetta Seconda Rivoluzione industriale. Tipicamente, un’industria è costituita da una sede, da appositi macchinari e da personale salariato, più o meno specializzato, idonei a trasformare della materia grezza in un prodotto elaborato, che poi va commercializzato. I fondi necessari all’acquisto di sedi e macchinari rendono sempre più frequente il credito bancario, mentre alla corresponsione dei salari si provvede col ricavato delle vendite. Per poter sopravvivere in un sistema competitivo, ogni imprenditore deve saper ottimizzare le risorse, contenere i costi e massimizzare i profitti. Perciò egli dovrà reperire la materia grezza là dove essa è offerta col miglior rapporto qualità-prezzo, dovrà assumere un numero ottimale di personale, organizzare la catena produttiva, usare macchinari efficaci e affidabili, tenersi aggiornato sul progresso tecnologico, reperire nuovi mercati, pubblicizzare il prodotto, fissare i prezzi di vendita, in modo che non risultino troppo alti rispetto alle capacità di acquisto dei consumatori, né troppo bassi da rimetterci.
Dal momento che produce occupazione e ricchezza, l’imprenditore è ben accetto dai governanti, che possono servirsi della sua opera per le loro politiche di grandezza, in cambio però devono concedere privilegi. Ecco che s’istaura un connubio fra i mondi imprenditoriale, finanziario e politico, sì che l’uno favorisce e viene favorito dagli altri, in un rapporto circolare e reciproco, che ha l’effetto di creare una sfera di grandi interessi e grandi poteri. I politici incoraggiano le attività dei finanzieri, i quali finanziano gli imprenditori, i quali producono ricchezza, della quale si servono i politici per conquistare il consenso delle masse. È su questo sistema di rapporti che si fonda tanto la DR quanto il capitalismo.
Il capitalismo industriale dà prova di grande vitalità ed efficienza. I progressi tecnici e industriali appaiono, infatti, irresistibili e si traducono in un numero impressionante di invenzioni, destinate a cambiare la vita della gente: dinamite (1867), illuminazione stradale con lampade elettriche (1870), telefono (1871), stufa a kerosene (1878), locomotiva elettrica e lampadina a filamento (1879), mitragliatrice (1883), bicicletta (1885), macchina fotografica e grammofono (1888), macchina per cucire elettrica (1889), cinema (1890), motore diesel (1893), radio (1894), macchina per scrivere (1898), lavatrice elettrica (1906). Non solo: l’impiego dell’acciaio e del cemento armato rende possibile la costruzione di opere grandiose: il ponte di Brooklyn a New York (1883), il primo grattacielo a Chicago (1885), la torre Eiffel a Parigi (1889); la zincatura delle lamiere, che garantisce una notevole stabilità ai prodotti alimentari in scatola, apre la strada all’industria conserviera; nasce l’industria petrolifera; e molto altro ancora.
Nello stesso tempo si diffondono le società per azioni (Spa) dove confluiscono enormi capitali, che provengono sia dai piccoli risparmiatori sia dalle banche e vengono investiti soprattutto per sostenere il giovane mondo dell’imprenditoria industriale. Esso è virtuoso se la concorrenza è vera e leale, diventa vizioso se le diverse imprese concorrenti si accordano e operano in regime di monopolio, mentre fanno pressione sui politici per ottenere leggi di favore. Si spiegano così le misure protezionistiche (tariffe doganali) adottate da molti Stati in difesa del proprio apparato industriale, che si vanno diffondendo a partire dal 1870. L’esigenza di reperire materie prime e nuovi mercati, insieme al pervasivo spirito nazionalistico, suscita nei maggiori Stati europei desideri di prestigio e di grandezza, la convinzione di essere superiori e di avere una missione da svolgere nel mondo, oltre alla volontà di rendere manifesto il proprio ruolo attraverso un’adeguata politica imperialistica. Così, nei rapporti fra Stati “le questioni di forza rimangono dominanti” (RENOUVIN 1974: 12) e sfociano nelle politiche colonialistiche. In ogni caso, nonostante le ombre, il regime capitalistico è tale da produrre ricchezza e benessere a vantaggio di un maggior numero di persone rispetto all’ancien régime.
Nel periodo 1871-1914 l’Europa è veramente il centro del mondo e, con la sua politica imperialistica, arriva dappertutto e dappertutto detta legge. È il periodo del primato della razza bianca, del darwinismo sociale, dell’ottimismo positivista, dei nazionalismi, a stento contrastati dalla sfida socialista, che mira ad unire i lavoratori e gli sfruttati di tutto il mondo. Anche se poco consono agli ideali illuministico-risorgimentali, il colonialismo produce vantaggi sia ai paesi colonizzatori, che acquistano materie prime e creano nuovi mercati, sia ai paesi colonizzati, che possono giovarsi del contatto con culture più avanzate. I problemi scaturiscono dal fatto che spesso i paesi industrializzati si limitano ad una colonizzazione di sfruttamento a proprio esclusivo vantaggio, generando condizioni di ingiustizia e motivi di malcontento da parte dei paesi colonizzati, da cui prenderanno origine i diversi movimenti d’indipendenza.
Il bisogno di materie prime e di nuovi mercati, generato dallo sviluppo industriale, induce molti paesi europei a perseverare nella politica coloniale e a lottare per accaparrarsi i posti migliori in Africa, Asia e Oceania, senza curarsi del fatto che quei posti sono già occupati. Il nazionalismo romantico risorgimentale lascia ora il posto ad un nuovo tipo di nazionalismo, che è cinico, sciovinista e imperialista. Ritenendosi superiori, per razza e cultura, i colonizzatori considerano se stessi come benemeriti portatori di civiltà e le regioni colonizzate come “terre senza popoli” da trattare a piacimento.
Il fenomeno del colonialismo raggiunge la sua massima espressione nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo: la Gran Bretagna stabilisce possedimenti coloniali a Singapore, Hong Kong, India e Africa meridionale, la Francia in Algeria, Senegal, Costa d’Avorio, Tunisia, Congo, Sudan e Madagascar, la Germania in Africa centro-meridionale, in alcune isole del Pacifico e in Cina, l’Italia in Somalia. Fino al 1885 l’espansione coloniale europea non incontra sostanziali resistenze, dal momento che né gli USA né il Giappone pretendono ancora di partecipare alla spartizione del mondo, e avvantaggia prevalentemente la Gran Bretagna, che è la massima potenza commerciale del momento.
Il capitalismo industriale contribuisce ad aumentare la distanza tra gli imprenditori, ossia i padroni (detti anche capitalisti, perché possiedono il capitale, cioè il denaro necessario per acquistare la fabbrica, le macchine e le materie prime) e i lavoratori (detti anche proletari, perché possono contare solo sul proprio lavoro e sulla prole, cioè sulle proprie braccia e sui propri figli). I primi godono della pienezza dei diritti e controllano i principali posti di potere, riuscendo a condizionare la produzione legislativa a proprio favore, i secondi vivono ai margini del potere, ma in misura diversa, a seconda del sesso: gli uomini svolgono le loro mansioni nelle fabbriche in condizioni quasi disumane e sono esclusi da molti diritti politici, come quello di votare e di essere votati, le donne, invece, oltre ad essere gravate delle incombenze di amministrare la casa e curare la prole, si vedono negate tanto i diritti politici, quanto quelli sociali, come vendere e acquistare, iscriversi all’Università e svolgere professioni prestigiose (medico, avvocato, ministro). All’interno della famiglia, poi, la donna è mantenuta in condizioni di subordinazione nei confronti del marito, coerentemente con quanto aveva sostenuto San Paolo e confermato il Codice napoleonico. È solo a partire dalla metà dell’Ottocento che, in Inghilterra, le donne cominciano a lottare per la parità dei diritti e, sempre in Inghilterra, vengono lanciati i primi segnali in direzione del riconoscimento dei diritti dei minori, che lavorano anch’essi nelle fabbriche e nelle campagne, senza tener conto della loro età e in condizioni di sfruttamento.

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