domenica 13 settembre 2009

14. Gli italiani dal 1815 al 1870

Il Congresso di Vienna ha posto sotto l’Austria, direttamente o indirettamente, molte regioni italiane: il Trentino, il Lombardo-Veneto, il granducato di Toscana, i ducati di Modena e di Parma e lo Stato Pontificio. Nello stesso tempo, il Piemonte si è rafforzato annettendo Genova e guadagnando uno sbocco sul mare, grazie anche alla complicità di Londra, che ha interesse a creare un forte Stato cuscinetto tra Francia e Austria. A sud ci sono i Borboni, che governano in modo autoritario. Riguadagnato il trono, Vittorio Emanuele I (1802-21) pensa di aver fatto un brutto sogno e la sua principale preoccupazione è quella di riportare indietro le lancette del tempo, a prima del 1799; si sente ferito e umiliato dai recenti avvenimenti e vuole ripristinare integralmente l’ancien régime. Dunque, fa abolire le leggi e le istituzioni napoleoniche: tutto ciò che ricorda i francesi dev’essere cancellato e dimenticato. Ma, purtroppo per lui, i tempi sono cambiati e procedono in una direzione che lui non ha il potere di invertire.
La tensione nazionalistica serpeggia nel paese, ma riesce a scuotere solo gli animi di una piccola minoranza di intellettuali e patrioti, mentre lascia del tutto indifferenti le masse. Esso si manifesta solo a Napoli (1820) e in Piemonte (1821), ad opera dei carbonari, che, seppur condannati da Pio VII (1821) e osteggiati da Leone XII (1823-29), non desistono dalla loro azione. Nel 1831 i moti rivoluzionari nazionalisti divampano in Romagna, Umbria, Marche e Stato Pontificio, con lo scopo di costituire governi repubblicani e liberali. Essi sono condotti da piccoli gruppi elitari, senza il sostegno delle masse e con l’opposizione della chiesa. Altri rivoluzionari vogliono un’Italia unita e agitano la coccarda tricolore, chiedendo al papa di rinunciare al potere temporale.
Anche il Piemonte è investito dalla bufera e Vittorio Emanuele, piuttosto che concedere ai rivoluzionari la costituzione, preferisce abdicare a favore del fratello Carlo Felice (1821), che in quel momento si trova a Modena. In qualità di reggente, tocca a Carlo Alberto (1798-849) affrontare la situazione, e il giovane principe compie un gesto di cui si pentirà, ossia concede la costituzione (14.3.1821), subito sconfessato da Carlo Felice, che intanto è accorso in Piemonte. Carlo Alberto si mostra dispiaciuto per quello che ha fatto e, volendo farsi perdonare, assume un risoluto atteggiamento antiliberale. Salito al trono (1831), poi, si impegna in una politica assolutista e clericale e reprime duramente i moti carbonari e mazziniani. Nello stesso tempo, avvia un processo di riforme e di modernizzazione del paese e introduce un nuovo codice civile, anche se ciò non basta a far di Torino una città prospera. A fronte dell’avviata industrializzazione, infatti, la disoccupazione è alta, i salari bassi, lo stato sociale pressoché inesistente e la povertà colpisce circa un quarto della popolazione. Non sorprende perciò l’iniziativa del canonico Cottolengo, che decide di aprire un’infermeria ove dare accoglienza ai malati privi di diritti (1828). Nel 1839 Carlo Alberto riconosce principe ereditario il figlio Vittorio Emanuele, il cui aspetto di popolano gaudente contrasta coi tratti raffinati e la rigida eleganza del padre.
Mentre si svolgono questi eventi, è eletto papa Gregorio XVI (1831-46), che si rivelerà “l’avversario dichiarato di tutte le forme di liberalismo” (RENOUVIN: 1974). Egli risponde lanciando un appello all’Austria, che interviene con un esercito e soffoca le rivolte. In questo clima di tensione, il pontefice pubblica l’enciclica Mirari vos (1832), in cui condanna le libertà di coscienza, di stampa e di pensiero, e, pochi giorni dopo, invita i cristiani all’ubbidienza a tutte le autorità costituite (Sollicitudo ecclesiarum, 1832). Nel 1836 i moti si ripetono e, ancora una volta, sono soffocati dall’Austria. Mentre combatte contro lo spirito rivoluzionario dilagante, Gregorio non trascura di arricchirsi, insieme ai suoi parenti.
È ancora lontana dai cattolici l’idea di uno Stato democratico. Secondo Vincenzo Gioberti, auspicare il governo del popolo sarebbe come pretendere che i figli generino i genitori o gli alunni insegnino ai maestri. Un buon governo deve essere autoritario e non partecipativo. Il migliore dei governi è la monarchia cristiana oppure una federazione di Stati sotto la presidenza del papa. Quest’ultima posizione trova ampia diffusione nella popolazione e viene condivisa dalla quasi totalità del basso clero. L’unica forma di democrazia concepita è quella legata al censo. Ecco, per esempio, come argomenta Antonio Rosmini: l’uomo è essenzialmente “persona”, ossia un soggetto spirituale avente dignità di fine, e da questo suo status deriverebbe il diritto alla proprietà privata e la distribuzione ineguale delle ricchezze; i ricchi hanno diritto a governare e ad eleggere i propri rappresentanti in ragione delle tasse che pagano.
Un po’ più aperto è il pensiero politico di uno sparuto drappello di intellettuali laici che, richiamandosi all’illuminismo, esprimono una concezione antispiritualistica e anticlericale. In generale, nel 1848, i rivoluzionari pensano a Stati singoli a governo monarchico costituzionale, ma vi sono alcuni, come Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio, che scorgono la necessità storica di un’unità nazionale sotto l’egemonia del Piemonte, altri, come Carlo Pisacane, che invocano una politica di tipo individualistico-anarcoide, auspicano l’abolizione di ogni gerarchia, ogni autorità e ogni proprietà e una nazione costituita da tanti comuni amministrati democraticamente: “la nazione è un’associazione di comuni, come il comune è un’associazione di individui” (VALENTINI 1995: 233-45). Una posizione particolare è quella di Carlo Cattaneo, che aspira ad un’Italia federale con governi locali partecipativi, ad una federazione di popoli e di Stati Uniti di Europa.
Una speranza per i rivoluzionari si apre con l’elezione al soglio pontificio di Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assume il nome di Pio IX (1846-1878). Uomo passionale ed emotivo, abile parlatore, contrario alla presenza austriaca in Italia, ha fama di essere animato da profondo zelo e da sentimenti liberali e patriottici e, anche se è accreditato di scarsa esperienza politica, è visto come l’uomo giusto per quel progetto federale tanto caro al Gioberti. Il suo pontificato inizia con una misura di normale amministrazione, l’amnistia ai condannati politici, che è seguita dal riconoscimento di una parziale libertà di stampa. Queste misure bastano a conquistargli l’ammirazione di tutti coloro che cullano sogni nazionalistici e indipendentisti, tanto che Mazzini si dichiara pronto a mettersi al suo servizio nella lotta per l’indipendenza nazionale (1847). Due anni dopo concede una costituzione moderata. Il suo scopo è quello di conservare il potere, in un momento di grande fermento nazionalistico, ma il gesto viene interpretato dai patrioti come un segno di apertura e complicità coi loro progetti. Quando poi pronuncia la frase “Gran Dio benedite l’Italia”, molti patrioti si confermano nell’idea di poter contare su di lui nella lotta per l’indipendenza dall’Austria. Ben presto si accorgeranno di essersi illusi.
Intanto l’ondata rivoluzionaria cresce e travolge anche il re di Sardegna, Carlo Alberto, che, con grande riluttanza, concede la Costituzione (4.3.48), che però viene chiamata Statuto, allo scopo di evitare ogni riferimento alla rivoluzione francese. Lo Statuto mantiene la monarchia ereditaria, cui però si affiancano due Camere: quella del senato, i cui membri sono nominati dal re, e quella dei deputati, che sono eletti dai cittadini più ricchi. Tutti i cittadini vengono riconosciuti uguali dinanzi alla legge e portatori di diritti civili e politici, la libertà di stampa è riconosciuta, ma entro certi limiti, il cristianesimo è proclamato religione di Stato. Lo Statuto albertino, che di fatto costituisce un tentativo di conciliare i princìpi della monarchia assoluta con quelli dell’illuminismo, diventerà, alcuni anni dopo, la Costituzione del Regno d’Italia (1860), che rimarrà in vigore fino al 1946.
Fiducioso nelle proprie forze, Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria, dando così inizio alla prima guerra d’indipendenza (1848). A sostegno delle truppe piemontesi accorrono volontari da ogni parte d’Italia, e perfino soldati inviati dal papa, il che fa di Pio IX forse l’uomo più popolare e amato d’Italia, ma solo per poco. Ben presto, infatti, Pio IX si ritira dalla lotta e comincia a manifestare un evidente disagio ad adattarsi al governo costituzionale, che pure è stato lui a concedere. Sentendosi traditi i patrioti insorgono e inducono il papa a fuggire da Roma (24.11.48), decretano la fine del potere temporale dei papi e proclamano la repubblica (9.2.49), che affidano ai triumviri Mazzini, Saffi e Armellini. Il sogno dura poco, perché i francesi conquistano la città (3.7.49) e la riconsegnano al papa, che si affretta ad abrogare la costituzione (12.9.49).
La guerra si conclude con la sconfitta di Carlo Alberto, che abdica a favore del figlio Vittorio Emanuele, ma anche con la consapevolezza che, da sola, l’Italia non è in grado di piegare l’Austria e nulla essa deve aspettarsi da un papa, che ha dimostrato di essere profondamente illiberale e antidemocratico. Del resto Pio IX non fa nulla per apparire diverso agli occhi della gente e si irrigidisce nel suo atteggiamento di opposizione all’unità d’Italia, mentre si impegna in una strenua difesa del proprio potere temporale, da lui ritenuto condizione necessaria per l’indipendenza spirituale della chiesa. Condanna le opere dell’abate Antonio Rosmini, che propone “di fare eleggere i vescovi dal clero e dal popolo, di donare i beni della Chiesa ai poveri, di abbandonare i rapporti privilegiati con le autorità civili” (GUERRI 1995: 181). Insomma, persevera nella sua politica reazionaria, così che, nel volgere di un biennio, diviene uno degli uomini più odiati d’Italia.

14.1. Mazzini
Nato a Genova nel 1805, si laurea in giurisprudenza nel 1827 e, nello stesso anno, aderisce alla Carboneria. Arrestato nel 1830 deve riparare in esilio a Marsiglia, dove fonda la Giovine Italia (1831). È convinto che il popolo d’Italia deve conquistare la propria indipendenza in modo diretto e senza l’intermediazione di eserciti monarchici. Spinto dagli insuccessi, si reca in Svizzera, dove fonda la Giovine Europa (1834), allo scopo di creare una solidarietà attiva fra tutti i popoli in lotta per la propria liberazione. Partecipa al tentativo di instaurare la repubblica a Roma, assumendo la carica di triumviro (29.3.1949), ma la repubblica cade e Mazzini deve di nuovo riparare in Svizzera e poi in Inghilterra. È ancora convinto che basta una scintilla a fare esplodere la rivoluzione popolare in Italia e promuove dei tentativi insurrezionali, che falliscono. Contrario all’alleanza francese (1859) e alla creazione di un regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia, Mazzini si batte per un’Italia unita e repubblicana. Amareggiato per l’abbandono di molti suoi seguaci, muore a Pisa sotto falso nome (1872).

Il fallimento dei moti mazziniani e il voltafaccia di Pio IX giocano a favore della casa Savoia, che rappresenta l’ultima speranza per un’Italia unita e indipendente e che, alla fine degli anni Cinquanta, può già accarezzare l’idea di estendere il proprio regno a tutta l’Italia, sfruttando l’ondata rivoluzionaria e la disponibilità di aiuto offertole da Napoleone III, che mira ad indebolire l’Austria e a fare dell’Italia uno Stato satellite. In realtà l’imperatore francese non pensa affatto ad un’Italia unita. Egli non vuole favorire la costituzione di una grande monarchia competitiva, pensa semplicemente ad una confederazione di piccoli Stati, come quella tedesca e altrettanto impotente. L’idea di un regno dell’Alta Italia è gradita tanto alla Francia quanto alla Gran Bretagna, che, però, entrambe, vorrebbero avere sotto il proprio controllo. Cavour (1810-61) giocherà anche su queste rivalità per raggiungere i suoi obiettivi, che sono quelli di un’unità nazionale ben più ampia e si muove con abilità e accortezza, prima alleandosi con Napoleone III, poi brigando perché scoppi la seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria (1859). Cavour vuole una “libera Chiesa in libero Stato”, ma Pio IX risponde con la scomunica. Intanto, nonostante le energiche proteste di Pio IX, l’Emilia insorge (1859): vuole staccarsi dallo Stato Pontificio per annettersi al Piemonte. Lo stesso fa la Toscana. La guerra si conclude con l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna. Non è quello che Cavour sperava, ma la sua delusione è compensata dai plebisciti, che decretano l’annessione dell’Emilia e della Toscana (marzo 1860).
Nel 1860, con la complicità di Cavour, Giuseppe Garibaldi sbarca in Sicilia e risale la penisola, causando la dissoluzione dello Stato borbonico. Intanto, si continua a ricorrere con successo all’arma bonapartista del plebiscito. Il 21.10.60 le province napoletane e la Sicilia vengono annesse al Piemonte a seguito di deliberazione plebiscitaria, imitate, due settimane dopo, da Marche e Umbria. Inutilmente il papa rinnova la sua scomunica. Il 17 marzo 1861 viene proclamato il regno d’Italia. Pio IX scomunica anche questo. Il re Vittorio Emanuele II mantiene in vigore lo Statuto, meritando il titolo di “re galantuomo”. L’unità d’Italia è costituita, anche se in modo incompleto: mancano lo Stato della Chiesa, alcune regioni (Veneto, Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia), che sono sotto il dominio dell’Austria, e Mantova. Da questo momento la politica del re è orientata ad annettere i territori mancanti e a fare di Roma la capitale del regno, ma la città è nelle mani del papa, che non ha alcuna intenzione di cedere una briciola del proprio potere temporale.
Pio IX sente che il suo trono è relativamente al sicuro perché sa di poter contare sull’appoggio dell’imperatore francese, Napoleone III, il quale non accetterebbe mai la creazione di un grande regno rivale e ha interesse di non inimicarsi il mondo cattolico francese, perciò, nell’allocuzione Maxima quidam laetitia (1862), ribadisce la necessità del potere temporale della chiesa. Quindi pubblica un documento, il Sillabo (1864), dove elenca, in 80 frasi, i principali errori della sua società, tra i quali sono inclusi il comunismo, il socialismo, il liberalismo (insieme alla libertà di religione, alla libertà di pensiero e di stampa e alla richiesta di istituire una scuola pubblica laica), ed anche la teoria della divisione tra Stato e Chiesa. Insomma, “il Sillabo è uno dei documenti più significativi della lotta del Vaticano contro il liberalismo, lo Stato di diritto e la civiltà moderna in generale” (Luttwak, Creperio Veratti 2000: 560). Concretamente, ciò significa che il papa non ha alcuna intenzione di accettare la «modernità». Per non turbare gli equilibri con la Francia, nel 1865 la capitale d’Italia viene trasferita da Torino a Firenze, quasi a voler dire che Roma non rientra tra gli obiettivi del re. Per il momento la situazione è tranquilla.
Mentre i potenti sono impegnati nei loro rapporti di forza e nella difesa dei loro interessi, la situazione delle masse contadine nel Mezzogiorno versa in condizioni critiche. Infatti, dopo un’iniziale fase di euforia, in cui sembra che stia iniziando un periodo di profondo cambiamento democratico, del quale molti contadini cercano di approfittare dando l’assalto alle proprietà dei grandi signori e dividendosi i loro latifondi, già prefigurando la fine della propria miseria, i fatti stanno a dimostrare che ciò è solo un sogno. Garibaldi, infatti, mantiene gli antichi privilegi dei ricchi possidenti e per le classi più deboli nulla cambia, nemmeno dopo che il potere è passato alla casa Sabauda, che anzi non esita ad imporre nuove tasse e nuovi doveri, come la leva militare obbligatoria, in precedenza sconosciuta, che sottrae manodopera alle famiglie.
Lo scontento popolare, abilmente alimentato dai borbone e dal papa, dilaga fino ad esplodere al grido “Viva il Borbone”. Organizzati in bande armate, i popolani si accaniscono contro i membri della borghesia liberale, gli archivi dello Stato e gli uffici di leva, dando vita al fenomeno del brigantaggio. Lo Stato deve ricorrere alla mobilitazione massiccia dell’esercito (1861), che impiega circa quattro anni per riportare la situazione sotto controllo, lasciando dietro di sé un numero impressionante di morti, superiore a quello di ogni altra guerra risorgimentale. Il brigantaggio continuerà a sopravvivere in forma endemica nelle campagne almeno fino al 1870 e, in Sicilia, contribuirà ad alimentare un nuovo fenomeno di criminalità organizzata, che prenderà il nome di mafia.
La Terza guerra d’indipendenza s’inserisce nel contesto della guerra tra la Prussia di Bismarck, di cui l’Italia è alleata, e l’Austria. Pur se duramente sconfitta dall’Austria, l’Italia trae vantaggio dall’affermazione della Prussia e guadagna il Veneto (1866).
Col passare degli anni, Pio IX rimane fermo sulle sue posizioni e continua a non vedere di buon occhio la proclamazione del Regno d’Italia, finché, qualche anno dopo (1868), con il famoso non expedit (non conviene), invita tutte le forze cattoliche a non partecipare alla politica. La rottura col re non può essere più netta, ma questo non preoccupa eccessivamente il papa, il quale continua a contare sull’appoggio dell’imperatore francese, che però viene improvvisamente meno, allorché Napoleone III, sconfitto dalla Prussia, deve rinunciare al trono (1870).
Approfittando del momento favorevole, il generale Raffaele Cadorna entra a Roma col suo esercito, proprio mentre è in corso il Concilio Vaticano I (1860-70), che, per volere del pontefice, si affretta a proclamare il dogma dell’infallibilità papale in materia religiosa : deve risultare a tutti chiaro quanto straordinaria sia l’autorità di quell’uomo che adesso viene ingiustamente privato del suo potere temporale. “Così la chiesa cattolica, per un’istintiva reazione di difesa, si centralizza dandosi all’assolutismo” (SCHNERB 1957: 216). Nelle encicliche Respicientes (1870) e Ubi nos (1871), Pio IX non riconosce il nuovo Regno e, imbronciato, si rinchiude fra le mura del Vaticano, dichiarandosi, sdegnosamente, prigioniero politico. Rifiuta, inoltre, l’assegno annuale di tre milioni e mezzo di lire, che lo Stato gli offre in cambio dei territori perduti, quegli stessi territori che i suoi predecessori avevano a suo tempo sottratto a longobardi e bizantini con la forza dei franchi. Nonostante che il re si affretti ad assicurare al papa la piena libertà nell’esercizio delle sue funzioni religiose, oltre al possesso dei palazzi del Vaticano (Legge delle guarantigie, 1871), Pio IX scomunica re e governanti e chiude così totalmente i suoi rapporti con lo Stato. Nello stesso anno, nonostante le reiterate proteste del papa, Roma diviene capitale d’Italia.

14.2. Che cos’è il Risorgimento
Volendo fare il bilancio del Risorgimento, possiamo dire che esso consiste nell’aver trasformato una pluralità di Stati in un unico Stato, una pluralità di nazioni in una sola nazione, per iniziativa di una ristretta élite di eroi e intellettuali oltre che di un re, e col determinante apporto della forza delle armi, ma senza un apporto sostanziale delle masse. L’Italia risorgimentale è una nazione senza popolo.

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