Nel 1823 il presidente Monroe (1817-25) dichiara di voler mantenere gli Stati Uniti estranei ai giochi di potere internazionali. Per il momento, il principale obiettivo degli Usa è quello di espandersi ad Ovest raggiungere il Pacifico. Hanno già acquisito l’Indiana (1816), il Mississippi (1817), l’Illinois, l’Alabama, parte del Massachussetts (1819) e il Missouri (1821), ma sono fermamente intenzionati a portare a termine la loro opera di espansione e sanno che c’è ancora tanto da fare. La progressione degli Stati annessi o conquistati è impressionante: Arkansas (1836), Michigan (1837), Texas e Florida (1845), Iowa (1846), Wisconsin (1848), California (1850), Minnesota (1858), Oregon (1859), Kansas (1861), Nevada (1864), Nebraska (1867), Colorado (1876), Montana, Washington, Oregon, North e South Dakota (1889), Idaho (1890), Utah (1896), Oklaoma (1907), Nuovo Messico e Arizona (1912).
Intanto si vanno consolidando e approfondendo le differenze culturali fra Nord industriale, che è favorevole all’introduzione delle macchine, e Sud agricolo, che è favorevole allo schiavismo, finché, nel 1861, si giunge allo scoppio della guerra di Secessione, una guerra civile, che oppone gli Stati del Nord (Unione) a quelli del Sud (Confederati). Il conflitto, che è uno dei più sanguinosi della storia (600 mila morti su una popolazione di trenta milioni di abitanti, secondo Zinn), si conclude nel 1865 con la vittoria dei Nordisti, i quali, abolendo la schiavitù, in pratica mandano in rovina il sistema economico del Sud, mentre impongono la loro visione della politica, che è incarnata dal partito repubblicano, che conquista il potere (e lo conserverà quasi ininterrottamente fino al 1913). Cominciano a formarsi i grandi trust imprenditoriali che, favorendo regimi di monopolio, dettano legge in campo economico e sono in grado di influenzare tanto l’opinione pubblica quanto la politica.
Per i salariati la vita è dura e grama, e ancora peggiore lo è per i neri. Nel 1876, nel centenario della Dichiarazione, gli uni e gli altri non nascono la propria delusione per la mancata conquista dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità, che pure è prevista dalla Costituzione, e danno inizio ad un’ondata di scioperi all’indirizzo di alcune compagnie ferroviarie, che sono ritenute colpevoli di aver praticato ingiustificati tagli ai salari. In Virginia e in Pennsylvania devono intervenire le truppe federali e ci scappa qualche morto. Gli scioperanti chiedono la nazionalizzazione delle ferrovie e la loro protesta rischia di estendersi alla gente di colore e a tutti quelli che sognano una società socialista, più attenta alle condizioni delle classi deboli, ma alla fine le ferrovie fanno qualche concessione e l’agitazione si placa. Rimane il bilancio di un centinaio di morti e di un migliaio di persone incarcerate (ZINN 2007: 173-4). Da questo momento e per tutto il secolo, la politica americana rimane di tipo borghese e non cambia. In particolare, gli organi di polizia vengono potenziati, in modo da mettere i salariati e i neri in condizione di non nuocere, e gli scioperi non sono più tollerati.
Dopo la guerra civile, prosegue il genocidio degli “indiani”, che vengono cacciati dai loro territori, sterminati e resi schiavi, e a nulla valgono certe loro isolate affermazioni, come quella contro il generale Custer (1876). Nel 1890 nessuna tribù ha territori indipendenti. Tutto è in mano ai bianchi. Restano solo 250 mila indiani, raggruppati soprattutto nel West. In meno di un secolo, gli americani hanno esteso il loro territorio di oltre il 400%, rivelandosi però incapaci di una crescita demografica altrettanto imponente, col risultato che molte regioni rimangono scarsamente popolate e costituiscono un eccellente punto di sfogo per la sovrappopolata Europa. A ciò bisogna aggiungere lo straordinario sviluppo industriale, che mantiene elevata l’offerta di posti di lavoro. Ed ecco perché, dal 1840 al 1914, diciotto milioni di emigranti europei, poveri in cerca di fortuna, sbarcano in America e si lanciano alla conquista del West: i carri dei bianchi, che si dirigono verso la California, attraversano continuamente i territori degli indiani, protetti dai soldati federali. La popolazione cresce rapidamente: da 76 milioni nel 1900 a 97 milioni nel 1914.
Per quel che attiene la politica internazionale, gli USA non cessano di ricordare che la loro stessa esistenza è originata dalla rottura dei legami coloniali con la madrepatria, e continuano ad avversare il colonialismo militare, che invece è praticato da Europa e Giappone. Se gli USA non perseguono una politica coloniale al di fuori del proprio Continente, in realtà essi non rimangono inerti e, anziché conquistare nuovi territori con le armi, come fanno gli europei, preferiscono procurarsi aree di influenza economica, attraverso quella che viene chiamata diplomazia del dollaro, e perseguono un imperialismo culturale, che si esprime nella volontà di esportare nel mondo il proprio modello politico, di stampo liberale e democratico, che è ritenuto superiore ai governi autocratici. Si comincia a ritenere che è arrivato il momento di guardare all’esterno e di pensare alla guerra. “Tutte le grandi razze dominanti”, ricorda Roosevelt, “sono state razze di guerrieri” (ZINN 2007: 209). Così, agli inizi del XX secolo, sotto la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-09), gli USA coltivano prospettive di un panamericanesimo economico e culturale, che è nettamente antitetico al modello marxista-leninista che, negli stessi anni, si sta sviluppando in Russia.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, mentre è presidente Thomas Wilson (1913-21), gli americani rimangono neutrali fino a quando la Germania non decide di allargare la guerra sottomarina contro chiunque (1.2.1917), il che offre a Wilson lo spunto per avviare una campagna ideologica e orientare l’opinione pubblica a favore dell’entrata in guerra degli Usa, che avviene 6.4.1917. Per gli americani si tratta di una “guerra della libertà e del diritto condotta affinché tutti i popoli, compresi i tedeschi, abbiano il diritto di autogovernarsi”. Wilson esprime questa posizione nei famosi quattordici punti e si comporta con coerenza fino alla fine del conflitto, anche se in questo modo finisce per scontentare gli Stati vittoriosi, che si aspettano condizioni più vantaggiose alla firma del trattato di Versailles (1919). L’opposizione di Wilson al sistema coloniale cozza contro gli interessi imperialistici di Francia e Gran Bretagna, che vorrebbero spartirsi i territori della Germania e dell’Impero ottomano. Alla fine, si giunge al compromesso del “mandato”, attraverso il quale la Società delle Nazioni assegna i territori tedeschi e turchi alle potenze mandatarie, che ricevono l’incarico di amministrarli e di condurli all’emancipazione. In realtà, questo principio verrà poco rispettato e il mandato si rivelerà per essere solo un colonialismo camuffato.
13. Presente e Futuro
15 anni fa
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