domenica 13 settembre 2009

16. I russi

Nel 1815 la Russia fa parte dei paesi vincitori e, in quanto tale, può ampliare i propri confini, solo che adesso il suo sistema autocratico appare minato dalle idee liberali che si sono introdotte al suo interno ai tempi delle guerre napoleoniche e che hanno dato origine alla costituzione di società segrete rivoluzionarie. Alla morte di Alessandro I (1901-25), approfittando di problemi sorti per la sua successione, queste società segrete promuovono una rivolta militare, ma la cospirazione è sventata e repressa con ferocia dal nuovo zar Nicola I (1825-55), che persegue una politica antiliberale all’interno, dove istaura uno stato poliziesco, e aggressiva all’esterno, dove mira ad espandersi, tanto in Asia quanto nei Balcani.
Nonostante la politica di riforma dello zar Alessandro II (1855-81), che abolisce la servitù della gleba, ammoderna il sistema amministrativo, giudiziario e scolastico, e apre all’economia capitalistica, la Russia rimane un paese fortemente centralizzato, refrattario alle idee liberali e motivato ad incrementare la propria potenza, a cominciare dalla costituzione di una vasta confederazione panslava. Approfittando di una rivolta anti-turca scoppiata in Erzegovina (1875), la Russia attacca e sconfigge l’impero Ottomano, ma in un successivo congresso internazionale di Berlino (1878) deve rinunciare alle conquiste territoriali per non compromettere gli equilibri europei.
La politica di Alessandro III (1881-94) è di tipo reazionario e si prefigge lo scopo di restaurare integralmente l’autocrazia, ma il suo regime poliziesco non può impedire la diffusione in Russia delle idee marxiste. A partire dal 1880 un’ondata di scioperi agita il paese, che però è caratterizzata da una scarsa carica rivoluzionaria, dal momento che le masse contadine non hanno ancora acquisito una chiara coscienza dei loro diritti e rimangono sostanzialmente passive e fedeli allo zar. D’altra parte le forze governative reprimono con energia le manifestazioni e fanno sì che, nel complesso, in Russia regni una calma apparente.
Il figlio di Alessandro III, Nicola II (1894-1917), eredita una situazione alquanto delicata, soprattutto perché i contadini sono allo stremo e i movimenti marxisti si estendono come un’ombra minacciosa. A partire dal 1895, la Russia, che ha già conseguito importanti progressi in Estremo Oriente, si trova a competere con la potenza nipponica. Dopo aver risposto negativamente al Giappone, che chiede una spartizione amichevole delle zone di influenza in Oriente, si apre uno stato di conflitto armato russo-giapponese (1904-5), che si conclude con l’affermazione nipponica e col ritiro della Russia dalla Cina. La sconfitta militare aumenta lo scontento popolare e provoca un’ondata di scioperi, agitazioni contadine e veri e propri moti rivoluzionari, ma Nicola rifiuta di impegnarsi in una politica di riforme e si limita a proseguire nella politica reazionaria del padre. Incapace di cogliere la gravità della situazione, o fiducioso nei propri mezzi e nell’inattaccabilità del proprio potere, egli risponde con baldanza e, in due episodi, le milizie zariste sparano contro una folla pacifica di manifestanti (1905) e contro dei lavoratori in sciopero (1912), facendo centinaia di vittime e indebolendo il consenso popolare al regime.
È in questi anni che si affermano spontaneamente le assemblee dei delegati di fabbrica, i cosiddetti soviet (= consigli), con la precisa volontà di portare avanti la loro azione politica di stampo popolare e rivoluzionario, che si ispira alle idee di Marx e vuole instaurare una dittatura del proletariato in sostituzione del sistema zarista. A partire dal 1905, anno di nascita del primo soviet a Pietroburgo, nell’arco di pochi anni il sistema dei soviet si estende a tutto il paese. Il nuovo spirito è incarnato nel Partito socialdemocratico russo, fondato nel 1898, nel quale si riconoscono due principali orientamenti: quello, maggiore, dei menscevichi, che sono favorevoli ad una politica di stampo liberale, che tenga conto delle istanze borghesi e punti all’europeizzazione della Russia, e quello, minore, dei bolscevichi, i quali, ritenendo irrealizzabile il programma menscevico in un paese arretrato come la Russia, privo di tradizioni liberali e di una classe borghese, sostengono la necessità di espropriare i ricchi possidenti e di distribuire “tutta la terra al popolo”, realizzando la “dittatura del proletariato” in Russia, l’unica ritenuta in grado di avviare al socialismo, e la “rivoluzione socialista mondiale”, perché la rivoluzione in un solo paese sarebbe incompleta.
Alla fine ha la meglio la corrente bolscevica, che ha in Lenin (1870-1924), un rampollo della piccola nobiltà, uno dei principali ideologi. Egli studia a si laurea in giurisprudenza (1891), ma non rivela le doti del valente avvocato, mentre manifesta di avere la stoffa dell’abile politico e dell’incomparabile trascinatore. Suo fratello Aleksandr è stato condannato a morte per aver partecipato ad un attentato allo zar. Anche Lenin ha guai con la giustizia e viene prima deportato in Siberia, poi esiliato. Nel 1916, mentre è esule in Svizzera, sostiene la necessità di trasformare la guerra in rivoluzione. L’anno seguente i tedeschi lo aiutano a rientrare in patria, sperando che le sue idee rivoluzionarie possano contribuire a determinare il crollo del regime zarista.
Nella sua azione Lenin si appoggia ai soviet, nei quali vede l’espressione politica del potere operaio. Contrario alla guerra, egli ritiene preminente su ogni altro problema “la salvezza della rivoluzione” e invita la classe operaia a lottare a favore di una pace basata sul diritto dei popoli all’autodeterminazione (Manifesti di Zimmerwald e di Kienthal, 1915, 1916). Infuoca gli animi delle folle con frasi del tipo: “quando ad ogni cuoca insegneremo a dirigere lo Stato, nessuna forza al mondo sarà in grado di vincere la rivoluzione socialista”. Da questa rivoluzione egli si aspetta la nascita di un “uomo nuovo” e di un mondo più giusto, senza classi e senza Stato, senza oppressione e senza sfruttamento, dove ciascuno abbia pari opportunità di estrinsecare il proprio talento e a ciascuno sia dato secondo le sue esigenze. Questo traguardo, secondo Lenin, potrà essere raggiunto solo con la rivoluzione armata, l’unica in grado di abbattere il regime borghese e di trasferire la proprietà dei mezzi di produzione dai capitalisti allo Stato.
Impadronitosi del potere (novembre 1917), Lenin cambia il nome del Partito bolscevico in Partito comunista, PCUS (1918) e, ponendosi come obiettivo primario “la salvezza della rivoluzione”, avvia trattative di pace, disimpegnando la Russia dal conflitto (Pace di Brest-Litovsk, 3.3.1918). La Rivoluzione russa del 1917 viene subito accostata alla Comune di Parigi del 1871, perché entrambe considerano la DR una falsa democrazia e, più precisamente, una forma di governo al servizio degli interessi della classe capitalista, e vogliono realizzare una DD. Perciò la democrazia dei soviet viene contrapposta a quella borghese dei paesi capitalisti. In realtà la DD non sarà mai realizzata e tutte le buone intenzioni sono naufragheranno definitivamente col crollo del comunismo nel 1989. Inutilmente le potenze dell’Intesa cercano di opporsi alla nascita di uno Stato anticapitalista.
La prima Costituzione sovietica, approvata il 10.7.1918, segna la nascita dell’URSS. Essa riconosce il diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni di entrambi i sessi (l’estensione del diritto di voto alle donne è una conquista della Rivoluzione russa), purché socialmente utili (vengono esclusi quelli che vivono di rendita, gli addetti ai culti religiosi e pochi altri), la libertà di coscienza, di pensiero, di riunione e di associazione. Ampi diritti sono anche riconosciuti alle minoranze linguistiche e razziali, mentre alle singole Repubbliche viene concessa la facoltà di separarsi dall’Unione qualora lo vogliano. Dopo essere stati gli artefici della rivoluzione, i soviet divengono la base dell’intera vita politica dello Stato comunista e governano il paese attraverso i loro rappresentanti liberamente eletti all’interno di un unico partito politico, quello bolscevico. “I soviet sono istituti di democrazia diretta, attraverso i quali le masse si governano da sé. Grazie ad essi il popolo non delega la propria sovranità e il suo esercizio ad istituti di potere separati. Ciò non significa che il soviet elimini la rappresentanza: al contrario i soviet sono precisamente organismi rappresentativi, ma che organizzano la rappresentanza in modo che essa sia non separata, ma sottoposta al permanente controllo dell’assemblea” (GRUPPI 1969: 378).
Nel 1919 viene costituita l’Internazionale comunista (Comintern) con il compito di unire il proletariato di tutti i paesi del mondo e guidarlo a quel risultato vittorioso che non ha saputo dargli la socialdemocrazia. Da questo momento il partito comunista si affermerà in molti paesi, sia in Europa che nel resto del mondo, dando l’impressione di rappresentare una reale alternativa al capitalismo. Sempre nel 1919, il partito comunista riesce a conquistare il potere in Ungheria, sia pure per pochi mesi. Nello stesso anno, un analogo tentativo fallisce in Austria. Questi eventi profilano lo spettro minaccioso del comunismo nel mondo, per difendersi dal quale alcuni paesi europei preferiranno gettarsi nelle braccia del fascismo.
Il governo bolscevico, tuttavia, non si muove secondo le direttive di una democrazia partecipativa ma, facendo ricorso alle maniere forti, si oppone all’autogestione diretta dei lavoratori e riduce i soviet a semplici strumenti del Partito. E ciò avviene da subito, mentre Lenin è ancora in vita. Come spiegare questa netta distanza tra la teoria di un progetto democratico e la realtà di una sua applicazione autoritaria? Secondo Roy Medvedev, la ragione va cercata in un errore di valutazione di Lenin, il quale vorrebbe applicare il suo modello rivoluzionario in un paese che è assolutamente immaturo per poterlo accogliere e realizzare compiutamente. Il fatto poi che la rivoluzione sia, comunque, in qualche modo accolta e realizzata si spiegherebbe con la politica impopolare del governo zarista oltre che per lo stato di guerra, che provoca scontento ed esasperazione nell’animo della gente (CHAMBERLAIN 1976).

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