domenica 13 settembre 2009

08. Il pensiero socialista

Ma ecco che si profilano nuovi problemi e nuove sfide. Adesso la terra, coltivata con metodi industriali, produce di più e richiede meno manodopera. La conseguenza è che numerosi contadini, attratti dalle offerte di lavoro nelle industrie, abbandonano le campagne e si trasferiscono nelle periferie delle città, dove si adattano a vivere nei miseri agglomerati che vanno sorgendo intorno alle fabbriche. Per il momento sono pagati ai limiti della sussistenza e scarsamente tutelati dalla legge. Ma così è. Le prime proteste operaie vengono duramente represse e le prime associazioni operaie sono costrette ad operare nella clandestinità. Nel lungo periodo, però, le dure lotte che gli operai devono affrontare in difesa dei propri diritti, da un lato ottengono la promulgazione di leggi a tutela dei lavoratori, dall’altro finiscono per creare una coscienza di classe fra i lavoratori stessi e ciò, in Inghilterra, intorno al 1830, costituisce una realtà evidente (THOMPSON 1969).
Colpiti dalle misere condizioni in cui versano i lavoratori salariati, alcuni intellettuali cominciano a riflettere sulle ingiustizie sociali ed elaborano le prime teorie socialiste. Robert Owen (1771-1858) favorisce la nascita delle prime cooperative; Saint-Simon (1760-1825) sottolinea l’importanza della classe lavoratrice e il parassitismo di molti nobili ed ecclesiastici, anche se non mette in discussione la proprietà privata; Charles Fourier (1772-1837) progetta un esperimento di comunità produttive autosufficienti e senza padroni; August Blanqui (1805-81) sostiene la necessità che i proletari abbattano lo Stato borghese e prendano il potere; Proudhon (1809-65) si oppone alla proprietà privata dei mezzi di produzione e critica la stessa istituzione dello Stato, a favore di una società di tipo anarchico. Marx (1818-83) ed Engels (1820-95) elaborano la loro teoria economica anticapitalistica e comunista, che accresce la consapevolezza di interessi comuni da difendere da parte della classe operaia, dà vigore alle associazioni sindacali e politiche dei lavoratori ed è alla base dell’istituzione della I Internazionale (1864), la cui funzione è quella di coordinare e sostenere le lotte e rivendicazioni operaie e di porre fine alle gravi disuguaglianze sociali.
Anche se, col passare del tempo, i lavoratori ottengono qualche concessione, le loro condizioni rimangono, per molti versi, insoddisfacenti, specie se messe in confronto con altre classi sociali. Da parte loro, i capitalisti borghesi sono consapevoli dei propri meriti in campo economico e aspirano al potere politico, dal quale si sentono ingiustamente esclusi. Al malcontento delle classi operaia e borghese si aggiunge quello dei militari, che, avendo goduto di grande prestigio durante l’età napoleonica, ora si sentono ingiustamente messi in disparte. E poi c’è una variegata tipologia di persone, per lo più intellettuali, appartenenti ai diversi ceti sociali, che non condividono il sistema politico vigente che, a parer loro, sa ancora d’ancien régime e sognano l’attuazione delle idee liberali agitate dall’Illuminismo e dalle Rivoluzioni americana e francese e che sono state affossate dalla Restaurazione. Sono i “rivoluzionari” o progressisti.
In questo contesto culturale ed economico gli intellettuali cominciano a produrre le proprie analisi ed elaborare le proprie teorie. Così, Proudhon (1809-1865) osserva che il popolo è oppresso da una trilogia di elementi, il Capitale, la Chiesa e lo Stato, che lo tengono in condizioni di inferiorità e marginalità: il Capitale è nelle mani di pochi ricchi e inaccessibile alle masse, la Chiesa e lo Stato tendono ad erigere sistemi gerarchici assoluti, all’interno dei quali il popolo è chiamato ad obbedire e credere, le leggi altro non sono che mezzi legali atti a salvaguardare i privilegi dei potenti. Ne conclude che l’unica speranza è riposta nell’anarchia, la sola condizione degna di una società adulta, in grado di scardinare l’ordinamento gerarchico, che è tipico delle società tradizionali e infantili.
Particolarmente acuta e incisiva è l’analisi della nascita dello Stato operata da Karl Marx (1818-1883). Secondo il pensatore tedesco, gli individui esistono solo in rapporto ad altri e il loro comportamento può essere compreso solo se lo intendiamo come un prodotto sociale e storico). Gli uomini iniziano a distinguersi dagli animali nel momento in cui sono in grado di produrre i propri mezzi di sussistenza, mentre, nel momento in cui è possibile disporre di un surplus, cominciano a comparire le classi, che si riproducono per cooptazione. La chiave per comprendere i rapporti tra le persone è proprio la struttura di classe, che è un prodotto della storia. Lo Stato viene prodotto dalla società allorché essa giunge ad un certo stadio di sviluppo economico e la classe sociale più forte vuole imporsi sulle altre. La storia di ogni popolo è il risultato dei rapporti di forza delle classi sociali, che competono per motivi economici e cioè per l’accesso alle risorse. Esse prima lottano per conquistare il diritto di amministrare il surplus e poi per legittimare la loro posizione di dominio. Ecco in che modo il potere economico si pone alla base di quello politico (Weber dirà invece che questi poteri sono indipendenti). I rapporti di classe, quali si osservano nei sistemi capitalistici, sono necessariamente rapporti di sfruttamento e, in futuro, quando si sarà affermato il comunismo, essi scompariranno.
Altrettanto acuta è l’analisi economica che lo stesso pensatore conduce sul capitalismo. Marx parte dalla premessa che il valore di una merce è pari al lavoro necessario per produrlo, al quale, in un sistema capitalistico, si deve aggiungere il plus-valore, che è il profitto dell’imprenditore. La teoria del plusvalore, cui è dedicato il primo libro del Capitale, spiega bene la particolare posizione dell’imprenditore che, dovendo pensare in termini di profitto personale, tenderà a porre al primo posto gli oggetti e le macchine e trascurerà il valore umano (ossia il lavoro che ha prodotto la merce), così che lo stesso lavoratore verrà trattato alla stregua di una macchina, buono solo ad essere mercificato e sfruttato. Grazie alle sue fabbriche e alle sue attività commerciali (chiamate da Marx “infrastruttura”), il capitalista non solo si arricchirà sempre più, ma potrà anche condizionare la cosiddetta “sovrastruttura” della società, vale a dire le sue istituzioni giuridiche, le idee religiose e la cultura in generale. Il “materialismo storico” consiste proprio nella scoperta che in ogni Stato le leggi e l’ordinamento giuridico e sociale costituiscono il risultato di un rapporto di forza, attraverso il quale le classi che controllano le risorse impongono i propri valori e fissano le norme del diritto.
Marx delinea un modello di società alternativo a quello capitalistico, che è fondato su valori di uguaglianza ed equità. Solo l’uguaglianza può garantire le condizioni per la realizzazione delle potenzialità di tutti gli esseri umani, in modo che «ogni uomo o donna possa dare» secondo le proprie capacità e «ricevere ciò di cui ha bisogno». Gli affari pubblici dovranno essere governati da tutta la collettività, le cariche pubbliche dovranno essere assegnate per elezione o rotazione, i funzionari pubblici dovranno percepire stipendi non superiori ai salari dei lavoratori. Dovranno altresì scomparire le divisioni di classe e i relativi privilegi, come pure il possesso privato dei mezzi di produzione, la logica di mercato e l’eccessiva ricchezza e povertà, in modo che a tutti sia consentito un margine di tempo libero da dedicare allo sviluppo della propria umanità. Per questa via, si giungerà alla progressiva integrazione tra Stato e società, cioè alla fine dello Stato e delle classi. In realtà, la posizione di Marx rimane abbastanza ambigua e tale da poter essere interpretata in modi diversi. Il fatto è che Marx non ci offre “nessuna ricetta di governo” (Attali 2008: 396).

Nessun commento:

Posta un commento