Nel 1871 il Regno d’Italia è quasi ultimato. Dal punto di vista formale, si tratta di una monarchia parlamentare di stampo liberale, centrata sugli interessi del re e della classe borghese piemontese. Di norma il re si limita ad una supervisione sulla politica estera e militare, mentre il resto del potere politico è esercitato da una Camera di deputati eletti dal popolo e da una Camera di senatori, che sono nominati a vita dal re su raccomandazione del Presidente del consiglio e che, di norma, sono di orientamento conservatore. Tutti i ruoli sociali strategici sono sotto il controllo del governo, che nomina sindaci e segretari comunali, oltre ai prefetti, che hanno il compito di assicurare la rispondenza delle amministrazioni locali ai desideri del governo centrale.
Rimane ancora l’impostazione maschilista della società, che vede la donna sottomessa al marito e con minori diritti sociali e politici e, per questo, il diritto al voto è riconosciuto solo ai cittadini di sesso maschile che hanno compiuto 25 anni di età e che pagano un’imposta di almeno 40 lire all’anno: in pratica, solo il 2% della popolazione. Nel 1870 gli aventi diritto al voto ammontano a circa 500 mila e salgono a 622 mila dieci anni dopo, ma l’astensionismo supera il 40%, anche a causa del non expedit, e gli effettivi elettori costituiscono, dunque, un’esigua minoranza. Ciò spiega l’enorme importanza di ogni singolo voto e la sollecitudine dimostrata dai candidati nei confronti dei loro elettori. È anche per evitare questo inconveniente che si cerca di estendere il suffragio. Invano Leone XIII tenta di evitare questa svolta affermando che la fonte del potere va ricercata in Dio e non nel popolo (Diuturnum, 1881). Nel 1882, l’abbassamento dell’età del voto a 21 anni e della contribuzione fiscale minima a circa 20 lire eleva il numero degli elettori a due milioni, il 7% della popolazione, che diventano poco meno di tre milioni nel 1909, ossia il 10%.
L’estensione del suffragio, tuttavia, non cambia sostanzialmente lo stato delle cose. Il potere, infatti, rimane centralizzato e saldamente nelle mani di una ristretta élite e di un governo che si serve delle forze armate e dei tribunali, ma anche dell’apparato finanziario, come semplici strumenti per assicurarsi l’obbedienza del popolo oltre che per lucrare facili e sostanziosi guadagni. Il più delle volte queste operazioni finanziarie truffaldine passano inosservate, ma talvolta le cose non vanno per il verso sperato e scoppia lo scandalo, come avviene nel 1893 per la Banca di Roma, implicata, con la complicità della classe politica e dello stesso Crispi, in un giro d’affari legato all’acquisto di terreni agricoli, che poi venivano dichiarati edificabili e rivenduti ad un prezzo molto più alto.
Oltre che per questi limiti di democraticità, i primi governi si caratterizzano per una politica ostile alla chiesa e per una scarsa partecipazione politica dei cattolici. Inizialmente, dalla parte del popolo si levano solo le deboli voci degli anarchici, poi entreranno in scena il Partito socialista e i sindacati.
Il processo di industrializzazione è ancora scarso, ma già sufficiente a favorire l’urbanesimo e il passaggio dalla tradizionale famiglia allargata a quella nucleare. Nel 1872 nasce l’industria della gomma (Pirelli), nel 1884 quella siderurgica (Terni) ed elettrica (Edison), nel 1886 quella meccanica (Breda), nel 1888 quella mineraria e chimica (Montecatini), nel 1899 la Fiat, nei confronti delle quali lo Stato adotta misure protezionistiche. L’offerta di lavoro nel settore industriale lusinga le masse contadine, che abbandonano le campagne e si trasferiscono nelle città, mentre lo Stato punta sull’espansione coloniale, sia per poter piazzare a condizioni favorevoli i propri prodotti, sia per una questione di prestigio internazionale, che è tutto da costruire dal momento che, alla fine del XIX secolo, l’Italia occupa, fra le grandi potenze, un ruolo marginale, non possedendo mezzi militari e navali atti a renderla competitiva. Tuttavia, il suo peso demografico (35 milioni nel 1913), insieme allo sviluppo industriale e alle tendenze nazionalistiche, sono tali da indurla a coltivare sogni di grandezza. I suoi interessi sono rivolti ai Balcani e all’Africa, dove essa vorrebbe estendere la sua zona d’influenza e dove si trova a competere principalmente con Austria e impero Ottomano. Nel 1890 Crispi guadagna all’Italia l’Eritrea e già si lancia alla conquista dell’Abissinia, ma la sconfitta di Adua (1896) fa cadere il suo governo. L’Italia comunque insiste nella sua azione e, nel 1905, annette anche la Somalia, entrando, a pieno titolo, nel novero delle potenze coloniali.
Se cresce l’industria, sostenuta dalla politica governativa, critica rimane la situazione dei contadini e degli operai, e ciò conferisce alla società un aspetto duale, potendovisi nettamente distinguere una classe imprenditoriale e borghese in forte crescita e una massa popolare costretta a vivere ai limiti della sussistenza e incapace di far valere i propri diritti, anche per la mancanza di una chiara coscienza del proprio stato e di un’efficace organizzazione unitaria. A più riprese falliscono i tentativi insurrezionali promossi dall’anarchismo bakuniano (1874-7), mentre avanza a grandi passi il socialismo, che dà vita ad un “Partito operaio” (1882), dal quale prenderà origine il “Partito socialista italiano” (1895), il cui programma comprende il suffragio universale, l’abolizione della censura, l’emancipazione delle donne, la tassazione progressiva sul reddito e la giornata lavorativa di otto ore. Del disagio dei contadini e dei salariati dell’industria si preoccupa poco il governo, che è tutto preso dai suoi sogni di grandezza e preferisce sostenere le classi abbienti. A Milano, nel maggio 1898, esso non esita a mobilitare l’esercito contro una folla di manifestanti che chiedono pane e lavoro, lasciando sul campo centinaia di morti.
La prima organizzazione sindacale, la Cgl, vede la luce nel 1906, ed è solo da questo momento che comincia ad essere attuata una politica riformista, che fa registrare le prime conquiste da parte dei lavoratori e l’introduzione del suffragio universale maschile (1912), che porta l’elettorato a otto milioni e mezzo (23%) e rappresenta un’importante conquista democratica. Intanto i cattolici non ci stanno a fare da semplici spettatori e danno vita a qualche iniziativa politica, come quella del sacerdote Romolo Murri che, appoggiandosi ai sindacati, fonda la Lega democratica nazionale (1906), ma queste iniziative incontrano l’opposizione della chiesa e non hanno futuro.
Da parte sua, lo Stato abbandona l’anti-clericalismo e si avvicina alla chiesa, ricevendo in cambio dal Vaticano l’allentamento del non expedit e, soprattutto, l’appoggio per la guerra di conquista della Libia (1911). Invano le forze politiche di sinistra si adoperano nel tentativo di mobilitare la pubblica opinione contro quella che loro definiscono un “atto di brigantaggio determinato solo da loschi interessi capitalistici della classe dominante” e da conseguire col sacrificio della povera gente. Hanno la meglio i nazionalisti, che inneggiano alla guerra, nella quale vedono l’unico mezzo in grado di fare grande il popolo italiano.
Ora che la chiesa si è riconciliata con lo Stato, può finalmente nascere la prima importante organizzazione politica delle forze cattoliche, che è guidata da Luigi Sturzo e prende il nome di Partito popolare italiano, Ppi (1919). Le elezioni del 1919 sono dominate dai due parti di massa: il PSI con il 32,4%, il PPI con 20.5%.
25.1. La politica vaticana
Mentre così cambiano i tempi, la politica vaticana rimane ferma sulle sue posizioni, che sono in antitesi tanto con l’unità d’Italia quanto con l’incipiente modernità (CANDELORO 1953). Di fronte alla proclamazione dei diritti democratici dei cittadini e al profilarsi di nuovi regimi politici improntati dai valori democratici, i papi non si ispirano al modello della città sul monte (Mt 5,13-16), non avanzano proposte innovative, non si mettono alla testa di un movimento progressista, ma preferiscono volgersi indietro e, mentre condannano il presente, auspicano il ritorno del passato. Si pensi all’ancien régime.
Ancien régime o vecchio ordine, così era stato chiamato dai rivoluzionari francesi il sistema sociale che essi intendevano mettersi alle spalle e che era “innanzitutto e soprattutto un’economia contadina ed una società rurale dominate da nobiltà ereditarie e privilegiate” (MAYER 1999: 4). L’ancien régime era fondamentalmente una società di tipo feudale, gerarchica, autoritaria, che aveva assunto pressoché ovunque una veste assolutistica, trovando nella Chiesa un potente sostenitore (MAYER 1999: 226, 229). Così, quando ormai l’ancien régime appare ormai definitivamente e irrimediabilmente agonizzante, papa Pio X dà alle stampe due encicliche (Lamentabili e Pascendi) con cui condanna il modernismo (1907) e, a partire dal 1910, viene richiesto ai chierici un giuramento antimodernista. Perfino in Francia, dove era stato dichiarato legalmente defunto, questo sistema in realtà sopravvisse fino alla seconda guerra mondiale (MAYER 1999: 4, 305-6).
Leone XIII (1878-1903) conserva la speranza di ripristinare il potere temporale della chiesa e si allinea subito alla politica del predecessore, ribadendo il “non expedit” e confermando, nell’enciclica Imperscrutabili (1878), l’atteggiamento di totale chiusura nei confronti dell’Italia. In linea con il Sillabo, condanna anche il socialismo, il comunismo e il nichilismo, come ultime espressioni degli errori moderni (Quod apostolici numeris, 1878). Medita di trasferirsi in Austria, ma la stipula di alleanza Italia-Austria (la Triplice, 1882), gli impedisce di portare a termine questo progetto. Il pensiero di Leone XIII presenta anche alcune, seppur timide, aperture al nuovo spirito democratico, che si manifestano già con la Diuturnum (1881), dove viene incoraggiata una certa libertà nell’esegesi biblica, poi con la Libertas (1888), dove si riconosce il principio della libertà di coscienza negato dai predecessori e, infine con la celeberrima Rerum novarum (1891), dove, senza nulla aggiungere ai princìpi già da tempo radicati nel mondo cattolico, viene difeso il diritto alla proprietà privata, anche se lo si inserisce in un contesto di solidarietà cristiana e di rispetto della persona, e criticato il diritto di sciopero e il socialismo. Nello stesso tempo, s’invita ad una maggiore giustizia sociale, ad evitare la guerra di classe, ad aiutare i meno abbienti e a stabilire un rapporto di collaborazione fra padroni e operai. Il capitalismo non viene neppure nominato. Sono queste le basi programmatiche della democrazia cattolica (1900), ma non basta ad approvare l’ingresso nell’agone politico del sacerdote Romolo Murri (1901). Anche se a Leone XIII viene riconosciuto il merito di aver introdotto un nuovo modo di annunciare la verità cristiana, che ora è basato più sul dialogo, anziché sulla condanna, come avveniva in passato, egli rimane in fondo un anti-democratico (condanna dell’americanismo, 1901).
La parziale apertura democratica di Leone XIII è vanificata dall’atteggiamento intollerante di Pio X (1903-1914). Uomo profondamente religioso e semplice (significativo è l’abbandono del plurale maiestatis), Pio X è altrettanto profondamente conservatore e contrario a tutto ciò che è moderno. Sotto il suo pontificato Romolo Murri continua a perseguire il suo disegno di guidare i cattolici alla partecipazione politica. Ebbene, questo disegno, benché temporaneamente incoraggiato da una breve sospensione del non expedit in occasione delle elezioni del 1904, viene definitivamente sconfessato e lo stesso Murri è accusato di modernismo e scomunicato (1907). Per Pio X il mondo è, e non può che essere, un sistema duale, ad imitazione della chiesa, che è, per sua stessa natura, una società di ineguali e comprende due categorie di persone, i pastori e il gregge, una società in cui solo la gerarchia muove e controlla ogni cosa, mentre il popolo ha il dovere di ubbidire ed eseguire, in spirito di sottomissione, gli ordini delle autorità costituite (Vehementer nos, 1906). Totale e senza appello è la condanna di ogni forma di modernità, che il pontefice definisce «compendio di tutte le eresie» (Pascendi, 1907). È cosi accesa l’avversione di questo papa nei confronti di tutto ciò che è nuovo, da indurlo ad imporre ai sacerdoti uno speciale giuramento di rifiuto del modernismo (1910). Alla vigilia della guerra mondiale, Pio X vede nell’Impero austro-ungarico l’ultimo baluardo del cattolicesimo e, nella sostanza, si schiera dalla sua parte, senza esprimere parole di condanna dell’imminente conflitto.
A differenza del predecessore e contro l’opinione diffusa presso la maggior parte dei cattolici, che è favorevole alla guerra, Benedetto XV (1914-1922) osserva una “perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune”. Per questo riceve molte critiche, e perfino insulti, ma lui prosegue per la sua strada, e, mentre condanna la guerra, si prodiga ad aiutare i detenuti politici e i prigionieri italiani e si adopera per una pace giusta, senza spirito nazionalistico, senza prevaricazioni e senza annessioni (Ad beatissimi, 1.11.1914). Quello stesso spirito nazionalistico, che ha condannato in politica, Benedetto XV lo coltiva in campo religioso, dove i non-cristiani vengono definiti pagani, infedeli, gentili, idolatri e, nei confronti dei quali, egli dà impulso alle missioni (Maximum illud, 1919). La promulgazione del Codice di diritto canonico (1917) contribuisce a migliorare la struttura organizzativa della chiesa, all’interno della quale si consolida l’autorità del pontefice. Sul fronte della politica italiana, Benedetto XV abroga definitivamente il non expedit e dà il via alla partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica del paese.
13. Presente e Futuro
15 anni fa
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