domenica 13 settembre 2009

05. Economia classica

Viene così chiamata la teoria economica che si sviluppa a partire dal 1776, anno in cui l’economista scozzese Adam Smith (1723-1790), considerando produttiva non solo l’agricoltura, ma anche l’industria e ogni altra forma di lavoro in grado di produrre reddito e migliorare le condizioni di vita delle persone, allarga e supera la vecchia concezione fisiocratica. Smith parte dalla constatazione che, tra i selvaggi, come del resto tra gli animali, “ognuno gode dell’intero prodotto della propria attività” (SMITH 2000: 6) e che è solo con l’affermazione della divisione del lavoro, nelle società civili, che “i poveri provvedono a se stessi e all’enorme lusso dei loro signori” (SMITH 2000: 6) e si creano le condizioni del libero scambio e del libero mercato. Per Smith ogni uomo è il giudice migliore del proprio interesse ed è bene che lo Stato intervenga il meno possibile nelle transazioni economiche e lasci il massimo spazio all’iniziativa privata e alla libera concorrenza. Lasciate libero il mercato, ammonisce Smith, lasciate pure che ciascun consumatore e ciascun produttore perseguano liberamente i propri progetti, e vedrete che una sorta di “mano invisibile” farà sì che alla fine prevarrà l’interesse generale e il progresso economico sarà assicurato. È un deciso attacco alle politiche protezionistiche raccomandate dai mercantilisti dell’epoca. La dottrina di Smith, nota come liberismo, sostiene l’opportunità di limitare al massimo l’intervento dello Stato nelle transazioni economiche e lasciare il mercato aperto alla libera iniziativa e alla libera concorrenza dei cittadini e delle aziende. Il liberismo trova un’autorevole conferma nella legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la domanda e tutto ciò che viene prodotto viene consumato; in altri termini, il mercato si aggiusta da sé, automaticamente e immancabilmente.
A questa visione ottimistica si contrappone il pessimismo dell’economista inglese Malthus (1766-1834), il quale sottolinea il rischio immanente di una crescita demografica, che finisce sempre per superare l’incremento delle risorse e a generare uno stato di crisi. Se noi, dice Malthus, incrementiamo ad arte il numero della popolazione, per esempio attraverso aiuti ai poveri, non facciamo altro che peggiorare la situazione generale, aumentando il numero degli indigenti e condannando la società ad una “povertà perpetua”. Contro le tesi di Condorcet e Godwin, che indicano la povertà come un prodotto sociale e politico, Malthus afferma che la povertà è un fenomeno ineliminabile, perché conseguente alla naturale asimmetria strutturale fra l’incremento delle risorse e la crescita della popolazione. Nei suoi confronti l’uomo altro non può fare che controllare l’incremento demografico sì da tenerlo in linea con la disponibilità delle risorse.
L’analisi maltusiana è condivisa dall’economista inglese David Ricardo (1772-1823), il quale afferma che non può esserci un progresso illimitato e che il sistema economico obbedisce a precise leggi, che bisogna conoscere, una delle quali è che, se si vuole aumentare la produzione dei beni è necessario che ciascun paese si specializzi in un settore ed esporti le merci che sa produrre meglio, importando tutto il resto. Il mondo intero trarrebbe vantaggio da questa divisione internazionale del lavoro. Secondo Ricardo, ai lavoratori dipendenti dev’essere riconosciuto un salario appena sufficiente a mantenere in vita loro e le loro famiglie. È la cosiddetta Legge bronzea, che relega i salariati ad un’economia di mera sussistenza e ad una condizione di miseria e di povertà ineluttabile, mentre consente l’arricchimento solo dell’imprenditore. Questo fenomeno, vale a dire il fatto che il datore di lavoro se la passa meglio dell’uomo o della donna che sgobbano, getta un’ombra sulla bontà del sistema capitalistico, ma viene solitamente addebitato a generiche responsabilità dei lavoratori stessi, che vengono accusati di incapacità (sono i meno dotati dalla natura, destinati inevitabilmente a soccombere) o di riprodursi in modo eccessivo e irresponsabile.
Oltre agli studiosi su menzionati, con i quali l’economia si separa dalla filosofia e diventa una scienza autonoma, è doveroso ricordare pensatori del calibro di Karl Marx e J.S. Mill, sui quali farò qualche breve cenno più avanti. Qui mi limito ad osservare che, in generale, l’economia classica si oppone ad una politica di welfare ed è contraria allo Stato assistenziale, anche se non mancano autorevoli voci discordanti in tal senso, come quella di Sismondi, secondo il quale “i poveri non meritano biasimo per il fatto di essere poveri; sono i ricchi che li tengono in tale condizione” (GALBRAITH 1996: 113), o quella di Proudhon, il quale ritiene che i frutti della proprietà sono quasi sempre dei furti.

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