domenica 13 settembre 2009

22. La Palestina e gli ebrei

Nel 1825 gli arabi palestinesi insorgono contro l’eccessiva pressione fiscale e resistono alle forze ottomane, che alla fine sono costretti ad accettare le loro condizioni. Questo episodio rappresenta l’inizio del risveglio nazionalistico da parte degli arabi palestinesi. Dopo una temporanea occupazione egiziana (1831-40), la Palestina ritorna ad essere una sottoprovincia (sangiaccato) dell’impero Ottomano. Intorno al 1850, essa è abitata da circa 500 mila persone di lingua araba e di fede musulmana, 60 mila cristiani, 20 mila ebrei, 50 mila militari ottomani. La popolazione rimane ancora arretrata, conduce una vita agricola e pastorale ed è raggruppata in clan, ciascuno dei quali è rappresentato da uno sceicco, primo fra eguali.
Dopo la guerra di Crimea (1853-6), gli europei, soprattutto i Templari tedeschi, cominciano a mostrare interesse per la Palestina e ottengono il permesso di acquistarvi terre. I nuovi arrivati vedono la popolazione indigena come gente di rango inferiore, da convertire alla propria religione o da eliminare, in modo da trasformare la Terra Santa in una colonia tedesca. Al loro seguito si distinguono gli ebrei che, stremati dalle numerose persecuzioni cui sono stati sottoposti e stanchi di sentirsi tollerati come ospiti nei diversi paesi del pianeta, cominciano ad avvertire il bisogno di costituire un proprio Stato autonomo, dove poter vivere in pace. Da quel momento, si assiste ad una rinascita dell’attività economica della regione e ad un incremento demografico, legato in parte ad un ininterrotto flusso immigratorio di ebrei, principalmente in direzione di Gerusalemme e Jaffa, favorito dalle discriminazioni e dalle violenze di massa (pogrom) , di cui quelli sono fatti oggetto in Russia. Il primo pogrom risale al 1881, dopo l’assassinio dello zar Alessandro II, di cui vengono incolpati gli ebrei. In questo periodo in Palestina vivono 24 mila ebrei.
Nel 1882, gli ebrei insediano, presso Giaffa, la loro prima colonia agricola, che è in pratica un’enclave ebraica in territorio arabo. Nello stesso anno, Leon Pinsker pubblica un libro dal titolo Autoemancipazione, dove indica, come unica soluzione possibile per gli ebrei, la creazione di una terra propria, di un rifugio, che non necessariamente dev’essere la Palestina (POTOK 2003: 497-8). Preoccupato, il governo ottomano vara una legge contro l’immigrazione degli ebrei (1882), che però continua clandestinamente, sostenuta, fino al 1889, dall’aiuto economico di un ricco banchiere ebreo, il barone Edmond de Rothschild, e, successivamente, grazie ai fondi raccolti da un’organizzazione creata ad hoc. Lo scopo è quello di creare uno Stato ebraico in Palestina. Tale progetto, chiamato “sionismo”, viene portato avanti da un giornalista ebreo, Theodor Herzl, ed è sostanzialmente un movimento espansionista, che ha, come obiettivo ultimo, quello di “trasformare un paese abitato da arabi nella loro patria” (MORRIS 2001: 68) e la fondazione di “uno stato ebraico indipendente con il consenso delle grandi potenze mondiali” (POTOK 2003: 504).
Nel 1891 un cospicuo numero di notabili arabi invia una petizione ad Istanbul chiedendo che si ponga un freno sia alle immigrazioni degli ebrei sia alla vendita di terreni ai sionisti, ma senza successo: nel 1896, in un periodo in cui è di moda il colonialismo e il nazionalismo, il movimento sionista viene ufficializzato, anche se non c’è accordo sulla sede. L’opzione maggioritaria propende per la Palestina, ma non si escludono altre possibili sedi, come l’Uganda britannica.
Considerando la Palestina una terra di nessuno, i sionisti coniano il seguente slogan, che riassume il loro programma politico: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Herzl vorrebbe comprare la Palestina, ma il sultano ottomano gli oppone un secco rifiuto, forse perché lo considera un ciarlatano, o perché non crede che egli disponga del denaro necessario, o, più semplicemente, perché ritiene inconcepibile quella richiesta. In compenso, nel 1902 l’impero ottomano offre a Herzl la Mesopotamia in cambio di denaro, ma ottiene un rifiuto (POTOK 2003: 506). Nel 1903 la Gran Bretagna offre l’Uganda, ma anche in questo caso i sionisti rifiutano. Il progetto sionista, tuttavia, non si arresta: quello che non si può ottenere con la diplomazia, si può tentare di ottenerlo con i fatti concreti. Dal 1878 al 1908 gli ebrei acquistano terre pari al 15% dell’intera superficie palestinese (MORRIS 2001: 55). È la prima fase della “conquista”, che possiamo chiamare della “espropriazione strisciante”, alla quale fa seguito l’inizio della costruzione della moderna Tel Aviv (1907) e la fondazione del primo kibbutz (1909).
Inizialmente gli arabi rimangono pressoché indifferenti e i funzionari ottomani si lasciano facilmente corrompere e rilasciano regolari certificati di residenza ad ebrei che sono entrati solo per un breve soggiorno come pellegrini o turisti (MORRIS 2001: 59), ma poi (1908), anche i palestinesi arabi iniziano a manifestare apertamente il loro nazionalismo e la loro aspirazione ad avere un proprio Stato. Nel 1909 viene fondata al-Fatat, un movimento di difesa della nazione araba contro le pretese sioniste, che, per il momento, deve operare clandestinamente (MORRIS 2001: 45).
La situazione cambia nel corso della prima guerra mondiale. Nel 1915, allo scopo di indurre gli arabi a ribellarsi alla Turchia, gli inglesi promettono loro uno “Stato sovrano musulmano indipendente” (ARMSTRONG 2000: 351). Due anni dopo, gli inglesi entrano a Gerusalemme e assumono il controllo della Palestina, che in quel momento ospita circa 60 mila ebrei, pari a circa l’8% della popolazione. Spinti da motivi contingenti, legati alla guerra in corso, e volendosi assicurare il sostegno tanto degli arabi quanto degli ebrei contro la Turchia, gli inglesi lasciano intendere ad entrambi le parti che saranno favorevoli alla costituzione di un loro Stato autonomo. Tale è il senso di una dichiarazione del loro ministro agli affari esteri, il filo-sionista lord Balfour, pubblicata nel novembre 1917, che promette un “focolare nazionale ebraico in Israele”, pur nel pieno rispetto delle popolazioni arabe residenti. Pur essendo un semplice gesto di propaganda politica, questa dichiarazione ha l’effetto di intensificare le immigrazioni degli ebrei, che, al momento, ammontano a 50 mila. Leo Mozkin, un intellettuale sionista, comincia a stimare che sei milioni di ebrei potrebbero insediarsi in Palestina senza espellere la popolazione locale, che dovrebbe rassegnarsi a vivere in condizioni minoritarie e subordinate (1918).
Finita la prima guerra mondiale, rimangono sul campo due nazionalismi, quello sionista e quello arabo, che puntano a fare della Palestina il proprio Stato. Nel 1919 la popolazione ebraica in Palestina passa a 58 mila, l’8% della popolazione araba, che ammonta a 640 mila. Ciò crea apprensione presso gli arabi.

Nessun commento:

Posta un commento